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“The Buddha pill: can meditation change you?” è il nome di un progetto editoriale che, nonostante quel che potrebbe far pensare dal titolo, esorta chi legge a rivedere il pregiudizio positivo nei confronti di un modello di spiritualità e di una certa idea di ricerca della felicità. Invece di promuovere la meditazione come un'arma magica per la trasformazione personale, l'obiettivo del libro è quello di spingerci a guardarci attorno e a smettere di cercare la felicità esclusivamente dentro di noi stessi. Prima di addentrarsi in questo tema, tuttavia, è necessario fare una premessa.
Qualcuno se ne sarà accorto, i più probabilmente no. Sono sparito per tanto tempo, in altri ho rallentato parecchio, ora sto riprendendo. O almeno così pare, il fatto che io stia scrivendo questa newsletter dopo più di sei mesi è un buon segno.
Non parlo molto delle mie vicissitudini personali, sono molto geloso della mia intimità, ma come forse alcuni dei miei lettori e delle mie lettrici sanno soffro di depressione e, forse più per me che per voi, ritengo giusto rendere manifesti i motivi di questo silenzio. Silenzio che interrompo, fino al prossimo buco nero, fino alla prossima volta in cui - e chi soffre di depressione mi capirà benissimo - mi sembrerà impossibile anche solo immaginarmi felice.
Che poi, cosa significa in fondo essere felice?
La felicità? Cercala dentro di te!
È indubbio che pratiche spirituali orientali abbiano avuto e stiano avendo un certo successo in Occidente. Yoga, meditazione, filosofie e religioni hanno attratto sin dall’Ottocento gli intellettuali di tutta Europa e ancora oggi hanno una buona presa tra il grande pubblico. Metto le mani avanti: non è certo mia intenzione criticarne i principi in poche righe, casomai proverò a fare il contrario, difendendone le basi.
Molto spesso sistemi di pensiero antichi e lontani sono stati infatti importati a pezzi da noi occidentali per essere ricomposti in formati quanto più monetizzabili. Corsi, libri e advertising probabilmente inondano la nostra quotidianità più di quella di coloro che vivono in culture dove queste dottrine hanno visto per prima volta la luce. Solo che da noi, a volte, vengono consumati in una versione posticcia e fortemente decontestualizzata.
In Oriente queste pratiche promuovevano infatti una chiusura in se stessi, un ritorno al proprio Io, una cura certosina della propria individualità. Tutto il contrario dell’egoismo sia chiaro, proprio perché tali conoscenze si innestavano in società caratterizzate da una visione dei rapporti e delle interazioni marcatamente collettivista.
Semplificando un po’ si potrebbe dire che ritirarsi in se stessi era un buon modo per ritrovare la propria intimità alla sera, dopo aver passato l’intera giornata a stretto contatto con dinamiche comunitarie molto forti. Una necessaria e salutare fuga dal mondo, in un mondo che noi, con i nostri standard, giudicheremmo forse invadente degli spazi personali.
In Occidente l’asportazione quasi chirurgica di queste pratiche dall’ambito di provenienza ha avuto delle volte effetti opposti a quelli desiderati. Importare filosofie individualizzanti in una società già marcatamente individualista come la nostra ha infatti esasperato la dimensione egoistica delle nostre esistenze. In “The Buddha pill: can meditation change you?” Miguel Farias e Catherine Wikholm evidenziano gli effetti di questa distorsione. Dalla mercificazione di metodi di meditazione e yoga riadattati per l’individualismo capitalista fino agli effetti collaterali del loro errato utilizzo: chi si concentra troppo su se stesso, magari passando troppo tempo nella cieca introspezione, rischia di aggravare i sintomi di ansia e depressione, nonché di provare un senso di dissociazione e distacco dalla realtà.
Insomma, secondo gli autori non dobbiamo cercare la felicità dentro di noi.
O quantomeno non solo lì. Meditare sì, ma ogni tanto aprire gli occhi.
La felicità individuale come realizzazione dell’occidentale
Dipende tutto da te. Tutto dannatamente da te.
In una società individualista come la nostra la felicità smette di essere uno stato d’animo e diventa un presupposto per la realizzazione personale. Essere felici è una postura, non più un’esperienza, e assume la forma dell’individualista soddisfatto, tenace, motivato e ottimista. Felice è il self man made che ce l’ha fatta, che ha trovato dentro di sé energie e forze per raggiungere i propri obiettivi personali, spesso schiacciati sulla carriera.
La felicità è ben nascosta, dentro di noi, in uno scrigno dell’Io che rende gli individui degli ossessionati ricercatori di se stessi, eternamente intenti a rimuginare. Rigidi controllori dei loro stessi errori da non ripetere, delle debolezze da correggere, delle risorse interiori da poter sfruttare.
La felicità dipende da noi, sta là e va solo cercata. Non piangiamoci addosso e rialziamoci. Concentriamoci, meditiamo, scaviamo ancora più a fondo se necessario. E restiamo resilienti. A testa bassa e ad occhi chiusi. E se sbagliamo impantanando la nostra esistenza nell’infelicità, in fondo, è solo colpa nostra.
Dall’estremo Oriente all’estremo Occidente: la felicità neoliberale
Non sono certo un esperto di discipline orientali - anche se lo sono i due autori della ricerca che ho consigliato di leggere -, eppure la chiusura interiore che propugnano, opportunamente decontestualizzata nella nostra società, ha fatto inconsapevolmente da ancella all’idea di felicità capitalista.
I sostenitori della scuola di Chicago (considerati tra i fondatori ideologici di quello che viene definito neoliberismo) hanno negli anni convinto il mondo che la ricerca individuale della felicità sia infatti l'unica via per edificare il benessere collettivo. Nella loro visione antropologica la sola società possibile è quella formata dagli interessi egoistici degli individui che la compongono in concorrenza gli uni con gli altri.
Altre forme di collettività, come formulava con orgoglio Margaret Thatcher, non meritano nemmeno di essere discusse: semplicemente non esistono.
In quest’ottica si legittima e si rinforza l’idea che la felicità o l’infelicità, la ricchezza o la povertà, il successo o il fallimento siano prodotti esclusivi del comportamento e dell’approccio del singolo. Un’eterna regressione nell’Io che esclude qualsiasi condizionamento esterno e che riduce il politico allo psicologico, patologizzando i complessi problemi sociali in aggrovigliate difficoltà individuali.
Un processo di iper responsabilizzazione dell’individuo e di totale deresponsabilizzazione delle istituzioni, in primis. Oltre che un ottimo modello di controllo sociale che funziona e alimenta le disuguaglianze.
Cristallizzare lo status quo dividendo gli individui attraverso la negazione della dimensione collettiva dell’esistenza atrofizza ogni propensione alla sua ricerca. Non solo rende l’alternativa impossibile, la trascina violentemente nel campo dell’impensabile.
Politicizzare la felicità
La felicità collettiva non è negazione della dimensione personale, né un tentativo di riduzione del suo godimento. Ma è la consapevolezza che in quanto animali sociali non possiamo vivere bene finché siamo inseriti in un contesto profondamente ingiusto e opprimente. Che molti di noi, anche se non lo sanno, non riusciranno mai ad abituarsi alla sofferenza altrui.
A molti di noi non basterà un aumento di stipendio, non basterà il corso di yoga. Non basterà il mindset giusto, un nuovo abito o lo smartphone all’ultimo grido. Il culto esclusivo della felicità individuale è il più delle volte una distrazione paralizzante, che rende chi la insegue un ergastolano dell’insoddisfazione. E che schiaccia chiunque, prima o dopo, nella morsa distruttiva della competizione totale e del consumo fine a se stesso.
Come spesso accade la contro-narrazione che invita a superare la mentalità del singolo resta prigioniera nelle accademie: antropologi e psicologi (i miei preferiti sono David Graeber e Michael Tomasello) per anni hanno denunciato gli effetti negativi di una società parcellizzata, oltre ad evidenziare i benefici sul piano individuale e collettivo della cooperazione e della solidarietà.
Non ho l’ambizione né l’esperienza per formulare ricette per la felicità, non basterebbe un libro per descrivere tutte le sfumature dei nostri sentimenti, le ambiguità del nostro intelletto e la complessità spesso contraddittoria del nostro tessuto esistenziale.
Però, da idealista, ho una convinzione che mi sento di poter condividere con sicurezza: non esiste alcun luogo dentro di noi dove si annida la soluzione ai nostri mali.
Tante volte basta guardarsi intorno, anche e soprattutto con un pizzico di sano pessimismo: la repressione di emozioni e di pensieri negativi contribuisce infatti a giustificare lo status quo, legittima le ingiustizie e banalizza la sofferenza.
Il diritto alla felicità passa anche dall’indignazione perché il diritto alla felicità è innanzitutto la possibilità di immaginare, per poi pretendere, un mondo migliore. Per se stessi sì, ma anche per gli altri.
È la consapevolezza che il nostro stato d’animo non è il prodotto di scelte personali o attitudini produttive ma la somma di fattori esterni ed interni che molte volte non possiamo controllare come singoli.
È l’affermazione dell’Io nella sua dimensione più piena, che comprende anche la sua vita nella collettività. È decidere, insieme, cosa sia la felicità per provare poi a realizzarla.
Non in un corso, in un podcast e nemmeno in questa newsletter. La felicità a volte si annida nell’Altro e quando la si trova ritorna a noi più piena di prima.
La felicità è solidarietà e partecipazione.
Pretendere la sua ripoliticizzazione, liberandola dalle catene narrative dell’individualismo, dovrebbe essere tra le priorità di qualsiasi partito.
Basterebbe metterla nero su bianco, quantomeno per iniziare.
No?
Alcune novità
Maledetto algoritmo
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Grazie per essere arrivata o arrivato fino a qui. Spero di ritrovarti presto, ovunque capiti.
Un abbraccio.
Alessandro
Caro Alessandro,
Grazie per questa riflessione.
La cosa che mi ha più colpito negli ultimi mesi è una story che avevi fatto su Instagram riguardo alle "persone in carriera" che lavorano sui treni, e a come invece sarebbere necessario tornare a parlare di musica, poesia, politica, amore su i mezzi di trasporto migliori di sempre.
Alla fine io sono felice solo quando sono in compagnia di persone che amo, o stimo, o mi incuriosiscono, e le conversazioni trascendono dalla mercificazione e dal denaro. Quando si parla di sentimenti, di sogni più profondi, di riappropriasi del tempo e dello spazio.
Ciò che hai scritto mi ha fatto venire in mente la critica mossa alla "mindfulness" e ciò che è diventata anch'essa un "bene" commercializzabile, il risultato di una strategia di marketing di "un sogno costruito", "uno stile di vita idealizzato", e anche questa pratica ispirata al buddismo è stata corrotta per tornaconti commerciali e suggerisce e incoraggia un mindset narcisista e poco sano. Non a caso, il programma classico di mindfulness si svolte in otto settimane. E se non sei felice dopo otto settimana, soddisfatto o rimborsato?
una delle newsletter più interessanti che ho letto quest’anno. non solo una riflessione assolutamente necessaria ma anche scritta in modo comprensibile e direi anche emozionante, leggere parole in cui mi ritrovo moltissimo aiuta a capire che è un problema sistemico che non può passare in secondo piano. grazie Alessandro, spero che ti aiuti sapere che le tue parole toccano tante persone, mi auguro tu non smetta mai di scrivere, senza alcuna fretta o pressione ma con la consapevolezza che trattare questi temi è essenziale per la consapevolezza collettiva