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(se non hai tempo ti consiglio di metterla tra gli speciali e leggerla con calma)
Non credo di aver ricevuto mai così tante critiche per aver scritto quello che ho scritto qualche settimana fa su Instagram. Fa parte del gioco e non ho certo l’illusione che la mia attività possa raccogliere solo plausi. Tuttavia è interessante notare come la sola pronuncia della S-word abbia sollevato un tale polverone.
Perché se da una parte la decostruzione pare abbia trovato un certo spazio nell’arena del dibattito, quando mi azzardo a parlare di parte costruens del progetto umano, quello che definirei un desiderio politico di costruzione, percepisco ancora parecchio malumore e sdegno.
Il desiderio politico scandalizza e fa paura. Se non si autocensura va represso e schernito. Deve essere espulso dal recinto del pensabile. Insomma, marginalizzato perché pericoloso. Ed è questo che mi è successo.
Ma prima di raccontare cosa sia il desiderio politico (perché immagino tu ci abbia capito poco) mi prendo qualche riga per raccontare una storia che molto probabilmente ti riguarda.
Per cosa ti indignerai domani?
Sei su un bus, oppure sul lettino del mare, se non sul divano di casa. Ti stai annoiando: leggere non ti va, o non hai tempo né le energie, apri un social sullo smartphone con svogliatezza o forse per automatismo.
Il tuo influencer di sinistra preferito ha pubblicato un post: può esserci un ministro omofobo, un politico che ha fatto una gaffe enorme, oppure l’imprenditrice di turno che afferma maliziosa che i giovani non si impegnano abbastanza.
Di fronte a questo giustamente ti monta la rabbia e senti il bisogno di qualcuno che la descriva con le parole più appropriate. Lui, il tuo influencer, ci riesce. Eccole lì, dieci slide - o 120 caratteri -, frasi ad effetto scritte bene, tanti commenti. E poi il tuo like.
Anche oggi noi, i buoni, abbiamo vinto, abbiamo decostruito smascherandoli. Solo che poi, a ben vedere, anche oggi continuiamo a perdere mentre il mondo si ostina incomprensibilmente a peggiorare.
Ma non c’è tempo per pensarci troppo, domani sta già arrivando e con esso la nuova polemica del giorno, nuove slide, nuovi like e nuove condivisioni.
Fino al giorno successivo, e così via.
Cambiare rotta alla decostruzione?
La nostra dose quotidiana di decostruzione flash è una battaglia a perdere, perché giocata nel territorio nemico e alle sue regole. Un gioco in cui poche categorie di soggetti hanno un reale guadagno.
Ci guadagna l’esponente alieno alla bolla (spesso un uomo di destra) che, sparandola grossa, detta l’agenda della discussione soddisfando il desiderio di apparire elettrizzante e fuori dagli schemi, desiderio che si traduce in capitalizzazione elettorale.
Ci guadagna il giornale che ne scriverà un articolo, che convertirà i tuoi clic in profitto, profitto che verrà in parte trasformato in costose vacanze per il direttore editoriale e in compensi da fame per i giovani collaboratori.
Ci guadagna l’influencer buono, la cui attività può essere ambiguamente altalenante tra la decostruzione divulgativa e l’edificazione del proprio ego. Magari ci piazzerà qualche codice sconto in mezzo, o un insipido libro dal titolo accattivante. Non lo so, buon per lui.
Solo che poi ci perdi tu. Tu che, in apnea tra un’indignazione e l’altra, devi fare i conti con un mondo erroneamente ridotto ad atomo del male e ad una narrazione che non ti lascia scelta se non quella di abbandonarsi al disfattismo dell’essere umano che fa schifo. Ti fa male, ti fa star male, devasta la tua psiche in quanto martellante descrizione di una disfatta da cui non sembra esserci alternativa.
Come il celebre adagio della liberale Margaret Thatcher, there is no alternative. Se non quella di diventare esperti dell’indignazione decostruttiva. Poco di più.
Il neoliberalismo ha infatti indiscutibilmente vinto la guerra dell’immaginario e per quanto sia importante rimettere in discussione punti di partenza, lessico e narrazioni del nostro modello sarebbe onesto ammettere che la decostruzione, senza un’alternativa di costruzione, semplicemente non basta.
Perché senza, proprio come nel Gattopardo, tutto si muove per non cambiare niente. Perfetta strategia per mantenere lo status quo.
Rompere l’ultimo tabù
L’idea che il reale possa cambiare perché tutti insieme, sui social o a mezzo stampa, contribuiamo quotidianamente ad indicare orrori e contraddizioni del sistema è pura follia.
Chi ci governa non cambia idea perché il tuo influencer preferito (con la stima infinita che ho per il lavoro di tanti che lo fanno bene) scaraventerà sulla gogna mediatica l’utile idiota del giorno. Nemmeno se ci mettiamo tutti insieme, nemmeno se riuscissimo a raccogliere 60 milioni di like.
Il paradigma cambia se e solo se si è disposti ad abbattere l’ultimo grande tabù: quello del potere. Perché il potere non si cambia da fuori umiliando chi lo detiene. Il potere, quando la storia ci chiama a cambiarlo, deve essere preso.
E prendere il potere è argomento fuori dal radar, per i più.
In primo luogo perché il potere è stato associato a qualcosa da cui rifuggire, di sporco, appiccicoso, con una capacità corruttiva insormontabile. E dal potere, per questo, si è cominciato a pensare che fosse meglio starne alla larga. Lo dimostra il fatto che oggi è molto più facile attivarsi per un movimento, un’associazione o un collettivo che si occupano di un singolo tema (ambiente, classe, femminismo ecc…) anziché impegnarsi nell’unica forma di rappresentanza che mira ad abbracciare la complessità del reale e si pone (o dovrebbe farlo) il problema di come governarlo: un partito.
In secondo luogo perché non abbiamo più, tranne in rari casi, voglia di impegnarci in prima persona. Sia chiaro, questo non è un atto di accusa. Ci sono più elementi per pensare che l’aver ridotto la nostra vita ad una maratona individualista e il furto sistematico di tempo che il mondo del lavoro opera ai danni all’ozio politico siano parte di una strategia più ampia per indebolire ciò che potrebbe rappresentare una minaccia agli assetti dello status quo.
Non è facile dopo una giornata passata immersi nei mezzi pubblici, nella melma lavorativa, nelle incombenze domestiche e nella asfissiante ora d’aria che dedichiamo allo svago pensare di attivarsi e responsabilizzarsi politicamente.
Però dobbiamo prenderne atto: dobbiamo volere il potere, dobbiamo pretenderlo. E per farlo prima dobbiamo incontrarci e poi dobbiamo tornare a costruire, insieme, il desiderio politico.
Cosa succederebbe se ricominciassimo a desiderare?
La sensazione muta e generalizzata che serpeggia è che il capitalismo sia non solo l'unica strada politica ed economica oggi percorribile, ma che sia addirittura impensabile e folle immaginare un'alternativa concreta. E così dato che nei cupi confini del reale dobbiamo restarci, il massimo a cui possiamo aspirare è ad addobbare un modello basato sullo sfruttamento senza limiti di ambiente ed esseri umani.
Desiderare politicamente, però, è il granello dell’ingranaggio che manda in frantumi il meccanismo, perché il desiderio travolge la realtà e la modifica.
Desiderare significa esattamente questo: viene dal latino siderare, ovvero l’atto di alzare lo sguardo per fissare le stelle. È sognare ad occhi aperti.
Il fascino per gli astri, per quanto ne sappiamo, ha sempre caratterizzato la nostra specie. Da esso sono nati miti, leggende, letteratura narrativa e produzione scientifica: senza il sincero desiderio di toccare il cielo non vi avremmo posizionato il trono di Dio, non avremmo puntato i nostri cannocchiali nella notte e non avremmo inventato aerei, satelliti e astronavi. Abbiamo guardato la volta celeste e ci siamo promessi - e continuiamo a farlo - che un giorno avremmo baciato una stella.
Si chiama iperstizione, ovvero la capacità di un’idea di orientare il futuro modificando la realtà. La capacità di un desiderio collettivo di prendere forma travolgendo il recinto del pensabile, rivoluzionando la Storia.
Certo, da Icaro all’Apollo 13 abbiamo fallito spesso, ma non ci siamo mai lasciati cadere nello sconforto e nella paura di vedere i nostri piedi saldamente ancorati a terra. E, alla fine, abbiamo imparato a volare.
Ed è strano vero? Abbiamo staccato Sapiens dal terreno dopo 200mila anni di tentativi vani ma non riusciamo nemmeno a pensare di scollare dalle nostre esistenze un sistema economico che esiste da una manciata di secoli.
Non siamo più capaci di desiderare, di desiderare politicamente. Non siamo più capaci nemmeno di provarci.
Quella volta che scrissi della S-Word
Socialismo. Non inteso come la riproposizione di modelli fallimentari novecenteschi, nessuno qui vuole importare la Nord Corea in Italia. E nemmeno una sterile discussione sul fallimento storico, su cui ci sarebbe molto da dire (a partire dalla sua utilità nei movimenti anti coloniali e sulle interferenze sporche di sangue dell’Occidente per ostacolarlo).
Socialismo inteso come sistema democratico in cui le persone non sono al servizio dell’economia ma dove l’economia è al servizio delle persone. Dove le esistenze sono il fine, non il mezzo. Dove le merci sono merci, e i beni comuni sono beni comuni.
Un sistema dove la collettività può ostacolare l’interesse privato se questo determina un deterioramento delle comunità, delle persone o dell’ambiente.
Un sistema che può decidere di prendere le redini del reale se la realtà ci urla che non vi è molto di sensato in quel che facciamo, come la crisi climatica ci insegna.
Non ha funzionato in passato? Premesso che questa affermazione potrebbe essere su più fronti problematizzata, sarebbe come prendere con convinzione una macchina del tempo per far desistere i fratelli Wright dal far volare il loro primo aeroplano, per il solo motivo che fino al 16 dicembre del 1903 nessuno ci era ancora riuscito.
Sarebbe rinunciare alla costruzione positiva di un progetto umano, sarebbe abbassare lo sguardo per restare ancorati al realismo capitalista del nostro tempo e chiudere gli occhi per smettere di desiderare le stelle.
Sarebbe, da un punto di vista progressista, un’ingenuità colossale. O una pianificata idiozia a favore delle élite.
Parlare di alternativa, sia esso il socialismo o ciò che preferite, non si fa. E chi lo fa deve essere marginalizzato.
Ne ho scritto su Instagram sul mio ultimo post sul clima, ho subito pesanti attacchi. Alcuni legittimi e interessanti, altri odiosi o profondamente ingiusti.
Ma al netto delle mie vicissitudini personali, di cui non credo vi interessi un granché, penso che tanto nelle reazioni scomposte dei detrattori quanto nell’autocastrazione del desiderio ci sia un denominatore che accomuna la censura del desiderio: la paura.
La paura di cambiare o perdere i privilegi per chi ha interesse nella stagnazione, forse.
Il terrore, per ciò che concerne chi è affamato di cambiamento, di avere tesi troppo semplici o troppo complesse, di mostrare argomenti deboli, di apparire anacronistici, infantili o sognatori.
Di essere considerati sganciati dalla realtà e dalla storia.
Che poi, a ben vedere, sganciarsi dal reale è staccare i piedi dal terreno ed elevarsi verso il progresso. È prendere il volo, sfidando le forze gravitazionali del pensiero conservatore e reazionario.
È immaginare un mondo nuovo, è darsi la possibilità di provare, di fallire, di sbagliare. È, come diceva Giorgio Gaber in Qualcuno era Comunista (uno spettacolo che dura 10 minuti e vi consiglio di guardare), essere due persone in una: un’esistenza individuale fatta di fatica e sofferenza quotidiana da una parte e il senso di appartenenza ad una nuova umanità che vuole migliorarsi e spiccare il volo dall’altra.
Provare a dare il volo al desiderio
Senza desiderio politico, che è la sfidante impresa collettiva per un domani migliore per tutti e tutte, non ci resta che accettare le cose come stanno. Non ci resta che limitarci ad un post, alle battaglie quotidiane, all’accettazione della disuguaglianza crescente e dell’inarrestabile acuirsi della crisi climatica. A guardare i potenti da lontano elemosinando un cambiamento. Invano.
E a vivere, come aveva previsto Gaber nello spettacolo che ho citato sopra, nella costante percezione del sé senza desiderio, ancora una volta diviso in due ma in modo diverso:
Da una parte l'uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall'altra il gabbiano, senza più neanche l'intenzione del volo. Perché ormai il sogno di volare si è rattrappito.
Due miserie, in un corpo solo.
In un sistema che può offrirci solo la miseria del reale, il desiderio politico è la forza immaginifica che può cambiare il paradigma. E, forse, farci fare una rivoluzione.
Soluzioni concrete? Sarei un ciarlatano se da singolo spendessi anche solo mezza riga per proporre ricette individuali a problemi collettivi.
Ma, giunti alla fine di questa mail mi chiedo: cosa succederebbe se tornassimo a desiderare un’idea politica e ci applicassimo tutti e tutte per realizzarla insieme?
Non è che si fa così, in fondo, per prendere il volo?
A.
Ultime news
1) Ho il telefono rotto, non riesco ad accedere a nessun social, per cui non so se e come potrò ricondividere le vostre storie domenica. Mannaggia mi dispiace, però ci provo in qualche modo e e come sempre cercherò di ringraziarvi uno per uno, magari un po’ in ritardo. Promesso.
2) Un giornalista può prendere parte e schierarsi come faccio io? Sì. E se rinunciamo per principio al prendere parte allora dovremmo rinunciare ad una gran parte della storia della stampa italiana. Dovremmo rinunciare ai giornali risorgimentali, a quelli della Resistenza, dovremmo giudicare inopportune avventure editoriali come quelle di Gramsci con l’Unità o di Scalfari con Repubblica.
Purtroppo, però, un giornalista che prende parte non sempre piace e il mio modo di informare mi ha causato in passato inciampi tra le collaborazioni.
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Ti ringrazio, spero di poterlo bere presto dal vivo:
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3) Grazie. So che pubblico poco, scostante e a volte male. Ma non mi avete mai fatto mancare affetto e sostegno. Grazie di cuore, perché con voi è come avere ogni giorno un abbraccio virtuale.
Con affetto e stima.
Alessandro
Ciao Alessandro, ma se il problema fossero le parole? Nel senso, il termine socialismo nell'opinione comune rimanda a vicende brutte, c'è poco da fare. Perché non cambiare parola?
E, soprattutto, cosa vuol dire socialismo? Se non viene spiegato è ovvio che le persone alzano le barricate, per il motivo di cui sopra. Bisogna mettersi nei panni delle persone, e chiedersi che effetto fanno le parole prima, e poi spiegarle in un momento successivo.
Purtroppo questo è il rischio di esporsi con idee di qualsiasi natura che non siano mainstream.
Viva le idee ed i desideri, e specialmente viva chi è capace di condividerle con il mondo e non di tenersele chiuse a chiave nella propria mente !