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Ho scritto un libro. Probabilmente molti di voi lo hanno visto su Instagram, mi scuso in anticipo se questa mail può sembrare ridondante. Però io dai social, intesi come piattaforma politica, sono praticamente sparito, stanco delle smanie di performance e delle inutili crociate in nome della purezza per raccattare qualche like.
Non fa più per me.
Questa stanchezza non mi caratterizza esclusivamente: molti di voi si stanno dirigendo verso un graduale abbandono o riduzione di quegli spazi e sempre più spesso, negli incontri dal vivo, le persone ammettono candidamente di seguirmi qua, solo sulla newsletter. È per chi è qui che voglio raccontare un pezzettino di Questione di classe.
Il momento sbagliato
Questo libro arriva nel momento meno adatto. Non lo è da un punto di vista commerciale, perché negli ultimi anni le librerie sono state invase da titoli che affrontano le grandi questioni sociali con un approccio divulgativo: femminismo, razzismo, omofobia, gender ecc…
Anche a me è stato più volte chiesto di scriverne uno ma non sono mai stato pronto, non volevo pubblicare un testo solo perché era il momento d’oro dell’editoria di sinistra.
Mentre si moltiplicavano i volumi su questi temi percepivo infatti una fastidiosa confusione di intenti collettivi, in molti casi vedevo ben coltivata solo la dimensione dell’autopromozione da Ego-brand e tra le decine di pubblicazioni, caroselli e podcast sentivo che lo spazio per il conflitto di classe si era ristretto fino quasi a scomparire.
Poi la cosiddetta saga “woke” si è sgonfiata: l’hanno chiamata così per ridere e, ridendo, l’hanno archiviata. Il marketing ha virato le vele e ora certi temi, dopo essere stati spolpati dal capitalismo dell’inclusione, non tirano più.
Per capire che questo non sia il momento giusto per pubblicare un saggio di sinistra basta fare una passeggiata in libreria: se solo due anni fa gli scaffali dedicati alla politica e alle lotte erano ben visibili e in primo piano, oggi i pochi libri rimasti sono confinati in un angolo sbadigliante, sommersi dalla sezione di sociologia.
Per questo so già che questo libro non avrà un numero di copie straordinario, ma non è questo il punto.
Politicamente è un disastro
Non è il momento giusto neanche da un punto di vista politico. La sinistra arranca, la destra avanza, e noi non sappiamo più nemmeno come articolare una risposta. Per anni siamo stati bravissimi a elaborare un linguaggio raffinato per descrivere gli altri, per etichettare il nemico, per sezionare le sue contraddizioni. Abbiamo cesellato etichette sempre più chic per dire quanto fossero mostruosi “loro”, mentre ci scordavamo di chiederci chi diamine fossimo “noi”. Chi siamo? Cosa ci tiene insieme? Da che parte ci dovremmo dirigere? Silenzio.
E non ce ne siamo accorti, ma in questo processo abbiamo aderito allo spirito del tempo, alla logica dominante del capitale. L’individualismo edonista che criticavamo negli altri ha permeato anche noi, ci ha attraversati fino a renderci incapaci di immaginare un orizzonte collettivo. La più diffusa ed efficace condivisione che siamo stati in grado di produrre è stata quella del selfie. Insomma, abbiamo passato al setaccio il mondo senza accorgerci che dentro di noi si stava consolidando un’ossatura neoliberista.
Oltre la decostruzione
Ecco perché ho scritto Questione di classe, per autocritica innanzitutto. Per provare a capire cosa ci determina, quali forze plasmano la nostra esistenza dentro la collettività. Perché siamo arrivati a immaginare il successo solo in termini di realizzazione individuale, anche in politica. Perché il classismo è diventato qualcosa di così invisibile da essere accettato come un dato di fatto. Mi sono chiesto dove abbiamo sbagliato nel nostro linguaggio, nella nostra strategia politica, nella nostra idea di futuro (se ne abbiamo una). Abbiamo passato troppo tempo a distruggere senza costruire, come in un Jenga ideologico permanente. Abbiamo decostruito tutto e tutti, ma non abbiamo lasciato nessun appiglio a cui aggrapparsi. Così il castello è crollato.
E mentre lo facevamo, gli altri – quelli che criticavamo con superiorità – raccoglievano consensi, creavano appartenenza, proponevano qualcosa che, per quanto distorto, almeno sembrava un orizzonte. Noi, invece, ci siamo raggomitolati nel lutto permanente, convinti che il disgusto bastasse a incendiare le piazze. Ma la rabbia, da sola, non basta. Serve un’idea. Serve una speranza. Ho provato a tracciare qualche spunto politico, anche prendendo idee da altri autori. Non una soluzione chiusa, non una formula magica, ma almeno una direzione, un orizzonte verso cui orientare il desiderio. Perché senza desiderio, senza quell’utopia che ci spinge a lanciare il cuore un metro più in là, resta solo il cinismo. E il cinismo, lo sappiamo, è già andato fuori catalogo.
Potevo scrivere un libro diverso. Con più note, più difficile, più per esperti. Non sono Piketty, Mark Fisher né Nancy Fraser, io mi occupo di divulgazione.
Potete pre ordinare il libro nella vostra libreria preferita (scelta consigliata) o acquistarlo su uno store online qui
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Non so se sarà un libro illuminante, mi accontenterei se fosse anche solo uno spunto di riflessione.
Buona lettura, se vi va.
Alcuni post scriptum
PS1: Grazie di cuore a tutti coloro che hanno scritto, commentato e ricondiviso. Spero presto di vedervi, magari ad una presentazione, per conoscervi.
Davvero, grazie.
PS2: Qualcuno mi ha fatto giustamente notare che tra i link c’è Amazon, posto che consiglio sempre (e dico sempre) librai indipendenti sottolineo che le scelte commerciali non dipendono dall’autore, che è a tutti gli effetti un lavoratore subordinato. L’argomento “ad coerenza” sui lavoratori è un argomento tipico dei reazionari (non lontano da “Hai lo smartphone e sei comunista?”), lo sento da quando ho 18 anni e lavoravo in un McDonald’s, per molto tempo mi sono sentito sbagliato, giudicato da molti compagni. Non si capisce - come ho già scritto in passato - perché ad un giornalista (lavoro per le nuove generazioni spesso precario e sottopagato) sia sempre richiesta maggiore coerenza di quella chiesta ad un operaio. Ricordo che viviamo in un sistema che ci costringe alla contraddizione, anche sul lavoro, al senso di colpa che ci vuole inculcare la sinistra moralista ho già risposto nella mia newsletter “Sei coerente” oltre che, ampiamente, proprio nel libro.
PS3: Riporto l’ultima pagina del libro, i ringraziamenti. Che ritengo doveroso mettere anche qui.
Ricordo il momento esatto in cui scelsi da che parte stare. Ero sul sedile posteriore dell’auto, avvolto dall’odore caldo del tessuto e dal brontolio del motore; avrò avuto sei, forse sette anni. Chiesi a mia madre che differenza ci fosse fra destra e sinistra. Lei, con la certezza semplice e luminosa delle sue parole, disse: «La sinistra si preoccupa un po’ più dei poveri, la destra dei ricchi». Da allora, anche se crescendo ho scoperto che la realtà sa essere più ambigua, quella frase mi bastò per orientare il cuore e immaginare chi sarei diventato. Il primo grazie, dunque, è per lei, mia madre, che non mi ha fatto mancare nulla, e quando in casa mancava tutto riempiva i vuoti con il suo amore ostinato.
Grazie a mio padre e a mio fratello: la vita ci ha tenuti meno vicini di quanto avrei voluto, ma so che saremo capaci di recuperare le ore, i giorni, le estati che ci sono sfuggite.
A Mark Fisher, don Andrea Gallo, Karl Marx e Chiara Volpato: le loro pagine sono state fenditure attraverso cui ho intravisto mondi nuovi, finché quei mondi non sono diventati la mia casa.
Al professor Gianni Cipriano, che mi ha insegnato ad amare il sapere come si ama un corpo desiderato. Mi piace immaginare che, dovunque si trovi, stia gustando un sigaro in compagnia di sant’Agostino, combattendo con lui con la dolcezza austera e testarda che lo contraddistingueva.
A Susanna Ciucci e al team Mondadori, che hanno creduto in me senza riserve, come si crede in un seme sepolto sotto la neve.
Agli amici della Gilda, a Hesed e Tia, a Fele: siete pochi e preziosi, bastate a riempire le mie risate e a rendere sopportabile ogni salita.
A tutta la mia famiglia – quella del sangue e quella, larga e disordinata, cucita con gli affetti. Da adolescente pensavo che la famiglia fosse un’invenzione borghese: ho impiegato anni a smontarla, poi a ricostruirla. Ora so che dovunque c’è amore c’è famiglia, e per questo ringrazio il destino che me ne ha data una così vasta.
A Mattia Levi, che mi ha accolto nella sua vita senza rendersi conto di quanto valga per me.
Al mio migliore amico Ettore, a cui manca la parola, ma che mi ha insegnato tanto. Ho sempre voluto un cane, lui è stato il primo, e ora che, a tredici anni, la sua vita è ai capitoli finali, non so come potrò vivere senza di lui.
A Francesca: il tuo amore, fin dal primo sguardo, è stato la mia rivoluzione gentile. Se oggi sono l’uomo che sono, è anche perché tu mi hai insegnato ad abbracciare la vita con entrambe le mani. Non ti ringrazierò mai abbastanza.
Infine a Romeo Sole, che con le sue dita ancora inesperte mi guida nell’avventura più bella che potessi mai immaginare: diventare padre.
Un abbraccio
A.
Grazie Alessandro. Per portarci a riflettere su tutto ciò a cui non siamo più abituati. Il titolo per me rappresenta il mondo che ho dentro e che in questa società fatico ad esprimere senza essere considerata "invasata", mi succede se parlo di salario mai consono ai costi della vita. Però poi se compro online tutti a puntarmi il dito contro "eccola cedi al consumismo" e forse lo faccio ma non toglie che i salari siano troppo bassi. Lavoro nel sociale (in una comunità psichiatrica) quindi puoi immaginare come sia difficile vivere dignitosamente con il nostro stipendio ma tutti a dirti "beh ringrazia che hai un lavoro" ma con 1.400 euro al mese con turni e notti e festività lavorate cosa posso fare quando in un inverno si spendono 1.000 solo di gas, fare la spesa è diventata una battaglia e se hai un problema ad un dente devi vendere un rene. Ecco scusa sembra uno sfogo e forse lo è . Ma è per ringraziarti per la tua lotta che sento nostra!
Mi sono commosso un bel po', soprattutto ai ringraziamenti, Alessandro. Sono diventato papà anche io da poco, quasi 7 mesi. Seguo lei e Francesca, sui social (che sto usando sempre meno per un sentimento simile al suo) e qui. Siete capaci di riabilitare gli sbagli, di rendere giustizia alle contraddizioni, di aumentare consapevolezze senza ergervi su piedistalli fittizi, e lo fate infondendo parole di coraggio. Ma non quel coraggio vanaglorioso, opposto alla paura che annulla le emozioni, quel coraggio fatto anche di paure, quel coraggio che fa immaginare futuro, in un modo fortemente comunitario. Quindi la ringrazio e vi ringrazio, certo che leggerla, anche nelle righe e tra le righe del suo libro, sarà un piacere.