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No, quella di Hamas non è una follia né il Male assoluto. La radicalizzazione violenta non è il risultato di una stortura della mente o di un degrado morale.
Ecco, metto subito le mani in avanti: in questa mail - che è molto politica e poco confortevole - non voglio promuovere la violenza in sé ma voglio provare a comprenderla. Per ciò che state per leggere mi assumo anticipatamente le responsabilità, anche se pericolose, e so bene che questa newsletter causerà verosimilmente la perdita di alcune collaborazioni lavorative. I facili slogan di demarcazione tra giusto e sbagliato, però, le lascio agli influencer buoni assetati di visualizzazioni e docili rapporti con i brand.
Io ho sempre preferito i cattivi maestri. Anche se spesso questi ultimi fanno una brutta fine.
Aprirsi cognitivamente alla violenza
Intuitivamente potremmo pensare che qualsiasi tipo di atto violento sia immorale. Ce lo hanno insegnato a scuola, in famiglia e attraverso i media. Quando le persone sono violente tendiamo a spiegare il loro comportamento attraverso l’immagine di una caduta dalla normalità, le descriviamo come folli, disumane, corrotte eticamente.
Niente di tutto questo è attinente con il vero.
Secondo una ricerca pubblicata su New Scientist, infatti, la maggior parte della violenza politica è motivata proprio dalla moralità.
Sia chiaro, questo non vuol dire che la violenza sia sempre moralmente accettabile, ma secondo Friske e Rai, autori dello studio, “in tutte le culture e nella storia, c’è generalmente un motivo per ferire o uccidere: le persone sono violente perché sembra loro la cosa giusta da fare in quel momento. Si sentono moralmente obbligati a farlo”.
Sul piano politico gli individui dunque perpetuano eccezionalmente ciò che ritengono generalmente ingiusto - come aprirsi all’idea di usare violenza verso un altro essere umano - se mossi dalla convinzione che la loro causa sia giusta.
Quali che siano le conseguenze se credono di non avere alternative.
La violenza umana di Hamas
Sarebbe oltremodo ingenuo pensare che esistano persone profondamente cattive.
Brutti ceffi che si alzano al mattino con il desiderio introiettato di fare il male, consapevoli di essere la parte sbagliata della Storia.
Ciò che ha fatto Hamas è un orrore e in nessun modo può essere giustificato. Ma ciò che è successo quel 7 ottobre durante il rave party non è la distorsione di un processo normale: è, nella sua drammaticità, pura normalità.
La genesi di un movimento terrorista in questo contesto poteva essere infatti prevenuta, o quantomeno contenuta.
Da un punto di vista di classe il conflitto tra Israele e Palestina è meno complicato di quanto si racconti in tv. Da una parte c’è una nazione colonialista finanziata dall’Occidente, dotata di un esercito in grado di schiacciare qualsiasi avversario si trovi nelle vicinanze. Dall’altra c’è Gaza, un lager a cielo aperto, perennemente sotto assedio, dove il tasso di disoccupazione è al 75% e il pil procapite è di 900 euro (in Italia è di 30.780).
Da Gaza non si può uscire e a Gaza non entra un filo di luce. Né di speranza.
Israeliani e Palestinesi combattono per la terra, solo che questi ultimi lo fanno per la sopravvivenza, nella sua accezione letterale. E in un contesto simile non è difficile immaginare come un ragazzo o una ragazza possano arrivare a scegliere la strada del terrorismo.
Come spiega tra gli altri Wictorowitz “lo spostamento dell’asse verso la radicalizzazione” non nasce da una moralità corrotta. I miliziani di Hamas non compiono orrori perché sono “cattivi”. Condizioni quali la deprivazione collettiva, il sentimento di giustizia violata, la sensazione di minaccia e di incertezza circa la propria identità alimentano la radicalizzazione e l’apertura all’opzione della violenza. Tutte esperienze che prova un intero popolo, quello palestinese, asfiissiato dalle politiche liberticide dello Stato di Israele.
A scanso di equivoci, lo ripeto: questo non rende in nessun modo accettabile quanto fatto da Hamas. Si sbaglia anche quando si è vittime.
Ma al netto del valore di una banale condanna emessa dal privilegio di trovarmi in questo momento in Occidente, è doveroso affermare che Hamas non sia il frutto della disumanizzazione né il prodotto della follia.
Se opprimi un intero popolo dentro muri fisici e legali stai muovendo meccanismi di ingegneria sociale che inevitabilmente porteranno all’esplosione di violenza.
Hamas è la naturale conseguenza di una serie di scelte politiche che hanno prodotto una metamorfosi indegna: trasformare donne, uomini e bambini in topi in trappola. E quando si sentono in trappola, si sa, i topi cominciano a scavare.
E in questo caso i miliziani di Hamas hanno scavato nell’animo umano ricordandoci fino a dove possiamo spingerci nell’orrore. Ma non è niente di anormale, niente di imprevedibile.
Tutto dannatamente umano. Tutto così maledettamente comprensibile.
La violenza è in sé giusta o sbagliata?
Allarghiamo la riflessione, anche se non ho la pretesa di essere esaustivo in queste righe. Assumendo che, come ci hanno sempre detto, la violenza sia in sé sbagliata possiamo, semplificando, annoverare due tipologie di rifiuto della violenza.
La prima è la nonviolenza morale. Che è quella a cui siamo stati abituati sin da bambini e che nei suoi sviluppi politici teorizza l’immoralità assoluta di tale pratica.
La violenza senza se e senza ma, uno slogan sempre più popolare e tipicamente sostenuto da chi vive nell’emisfero di comfort del mondo. Ma è davvero ingenuo crederci con convinzione, se non pericoloso.
Del resto se rifiutassimo per principio la violenza come strumento politico dovremmo rinnegare esperienze quali la Rivoluzione Francese, la Resistenza o praticamente tutti i movimenti di liberazione anticoloniali.
Qualsiasi diritto di cui godiamo, tra cui quello che mi permette di scrivere quel che sto scrivendo, è stato conquistato macchiando di sangue le pagine della Storia. A volte con indicibili atrocità, è vero. Atrocità che tuttavia non devono essere usate come meccanismo di delegittimazione della causa, se crediamo essere quella giusta.
C’è poi la nonviolenza strategica, ovvero la scelta razionale di non esercitare violenza perché ritenuta inefficace o controproducente. È la strategia, ad esempio, di quasi tutto il movimento ambientalista. Si basa sul principio di rivoluzione dei cuori che la nonviolenza opererebbe sull’opinione pubblica: attraverso un costante e più o meno mansueto proselitismo si spera di convincere la gran parte della popolazione della bontà della propria causa e, di riflesso, le istituzioni. Il cortocircuito di questa ferrea convinzione è innanzitutto storico: è molto democratico credere che i cambiamenti avvengano grazie al 50%+1 della popolazione. Tuttavia, semplicemente, non è così.
Si stima che la presa del Palazzo d’Inverno abbia coinvolto 20mila manifestanti, circa lo 0,016% della popolazione russa nel 1917.
954 erano - secondo alcune fonti - gli assalitori della Bastiglia, nel 1789.
La Resistenza l’hanno fatta in meno dell’1% degli italiani.
Insomma, malgrado quello che siamo portati a credere, pochi individui (spesso molto arrabbiati e molto violenti) attivano processi di riprogrammazione morale, rendendo inaccettabile ciò che fino a poco prima veniva considerato normalità e attivando i meccanismi del cambiamento storico.
E poi, va detto, la nonviolenza strategica spesso non funziona. E quando l'ha fatto è stato perché chi deteneva il potere temeva che la protesta pacifica potesse essere spazzata via dall’ala violenta del movimento. Lo spiega bene Andreas Malm, in Come far saltare un oleodotto (ed. Ponte alle Grazie). Le richieste di Martin Luther King sono state ascoltate perché si temeva l’avanzata del leader più radicale, Malcom X. Il (solo presunto) pacifismo di Gandhi rappresentava un’alternativa al pantano anticoloniale in cui il Regno Unito si trovava su scala globale, pantano che era costato agli inglesi un altissimo costo in termini di vite umane.
C’è infine un tema centrale nella nonviolenza strategica assunta come inamovibile presa di posizione: quanto tempo è necessario per compiere questa rivoluzione dei cuori? Cosa succederà quando ci accorgeremo che la disobbedienza nonviolenta non basterà più ma sarà troppo tardi? Non credo, se vogliamo tornare all’esempio ambientalista, che le prossime generazioni saranno sollevate di vivere sulla soglia dell’apocalisse sapendo che i loro padri e le loro madri sono rimasti fedeli al principio di nonviolenza, nonostante tutto.
Evidentemente la nonviolenza è strategica lo è nella misura in cui si riduce ad essere una strategia che minimizza il rischio di rimetterci la pelle, come individui.
Dobbiamo essere onesti, almeno in questo.
Normalizzare e svelare la violenza invisibile
Violenza non significa per forza impugnare i fucili e sparare. Vale per chi si oppone allo status quo (si può, appunto, far saltare un oleodotto senza voler mietere vittime) ma anche chi fa finta di niente e continua a nascondersi dietro alla nonviolenza.
Perché la violenza è qui, tra noi, solo che spesso non si fa vedere e ci rende inconsapevoli meccanismi. È la violenza invisibile su cui è fondato il nostro modello, violenza che si nasconde dietro la crosta della pace sociale, ovvero l’implicito patto universale che ci impedisce di usare il conflitto come arma di cambiamento.
Violento è il rapporto asimmetrico tra un datore di lavoro e il suo dipendente. Violenta è una multinazionale che inquina un Paese lontano, condannando alla morte o alla migrazione chi vive in aree a rischio. Violenta è una banca che investe in armi che verranno utilizzate per bombardare i civili. Magari a Gaza.
Sangue che non vediamo ma che sgorga tutti i giorni da qualche parte, lontano dai nostri occhi.
Un esempio su tutti è quello che chiamo il paradosso del Black Bloc.
La narrazione ingannevole della società basata sulla sacralità dell’educazione e della protesta pacifica ci rende estremamente odioso l’incappucciato che, durante una manifestazione, danneggia un Suv. Eppure, come scrive Malm, “se i Suv fossero una nazione sarebbero la settima per emissioni di Co2”. Considerando gli effetti devastanti della crisi climatica sulla vita delle persone fragili, il solo possesso di un'auto di lusso equivale a sparare a caso in mezzo ad una folla di poveri.
Significa, di fatto, compiere un conscio classicidio per il sacro diritto del consumatore a poter ostentare uno status symbol che va ben oltre la sussistenza.
I veri Black Bloc, intesi come attori violenti che perpetuano devastazione e saccheggio, a ben vedere sono i ricchi. Tutto a volto scoperto.
La loro violenza, invisibile, è normalizzata. Quella di chi distrugge una proprietà superflua e dannosa, invece, suscita lo sdegno generale.
E se aderiamo a quanto scritto sopra, ovvero che la violenza è uno strumento che i gruppi utilizzano se sentono di non avere alternative, vien da sé affermare che la violenza invisibile non sia altro che un espediente essenziale per il mantenimento dell’egemonia dei ricchi sul resto del mondo.
Senza sfruttamento il capitalismo occidentale non reggerebbe, mantenerlo per chi ha il potere è una questione di vita o di morte, da difendere con violenza.
Violenza che non vediamo, ma che ci colpisce con diversi gradienti di intensità. Colpisce tutte e tutti.
Odiare la pace
La pace non è la risposta a tutto. E lo dico con la paura di chi sa già che questa frase sarà fraintesa e gli causerà dei problemi.
Evocare la pace è la scelta retorica più semplice quando non si vuole scontentare nessuno. Ma è anche la via di fuga più codarda che solo pochi privilegiati possono permettere di intraprendere.
Ci può essere una pace apparente, che nasconde una violenza invisibile. Si può vivere in una società basata sull’oppressione, ma al suo interno perfettamente pacifica. C’è chi subisce ogni giorno, nell’assordante silenzio della quiete capitalista.
Del resto uno schiavo in catene che non si ribella la alimenta, questa maledetta pace.
La violenza, come del resto abbiamo visto, può essere spostata, esternalizzata, portata lontano: la violenza non è la naturale antitesi della pace. In una società ingiusta la violenza esiste e la pace apparente rappresenta la sua colonna portante.
C’è una differenza enorme tra pace e liberazione. E la pace, senza liberazione, non è che difesa dello status quo.
Per questo ci sono momenti della Storia in cui è necessario spingersi ad odiare la pace, quando questa è intesa come gabbia del cambiamento. Ci sono momenti in cui la Storia ci chiama a superarci come individui, a combattere per qualcosa di più grande. A riconoscere che, nostro malgrado, i nemici esistono e l’unico modo per progredire è ritenerli tali, scontrarsi con loro in conflitto.
Perché a dispetto di ciò che ci hanno insegnato, il conflitto è il movimento più nobile che l’animo umano possa produrre di fronte alla prevaricazione del più forte contro il più debole.
Perché ha permesso a questi ultimi, quando si sono uniti, di essere finalmente ascoltati.
Non c’è pace, senza libertà.
E se non c’è libertà lottare è un diritto.
#FreePalestine
A.
Alcune novità
È uscito su tutte le piattaforme di podcast “La mia parte”, una serie di 4 episodi da 20 minuti l’uno in cui esploro, senza la pretesa di essere esaustivo, il mondo dell’attivismo. L’ho fatto con Chora Media e ActionAid, a partire da martedì 31 ottobre e per i successivi 3 martedì usciranno le puntate.
Se ti va fammi sapere cosa ne pensi!Il prezzo per l’essersi esposto sui social per la Palestina è alto per chi fa il mio mestiere: le piattaforme hanno dimezzato le views, rendendoci invisibili.
Molte pagine e molti creator, molto furbamente, non si sono espressi, lo hanno fatto solo quando si sono resi conto del moto popolare o lo hanno fatto in modo blando.
Ti invito a tenere conto di questa cosa: c’è chi si mette in gioco e chi sta al gioco.
E a seguire chi ci crede, davvero.
Se non vuoi perderti i miei contenuti (ma puoi pure perderli eh!) puoi andare sul mio profilo IG e attivare la campanella. Sai che pubblico pochissimo, non ti sommergerò di notifiche.
E comunque chissene degli algoritmi, non abbiamo paura della repressione.
(Friendly reminder per la Digos: non sto promuovendo nessun tipo di violenza, è una riflessione sulla sua natura. E comunque vi vogliamo tutti bene).La crisi palestinese evidenzia un dato: il mondo del giornalismo ha un grosso problema. C’è chi per lavorare decide di appiattirsi alla narrazione mainstream (senza colpevolizzare, sono vittime di ricatto) e chi decide di intraprendere un lavoro indipendente, pagandone le conseguenze.
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TI VOGLIO OFFRIRE UN CAFFÈCome sempre, forse più del solito, grazie. Pubblico poco, scostante e a volte male. Pochi lo sanno, ne parlo raramente, soffro di depressione e ho dei periodi in cui mi chiudo e non scrivo. Non si sa con certezza ma probabilmente nelle prossime settimane starò più con me stesso (ho i segnali dell’arrivo di un buco nero).
Se sei arrivata o arrivato qui vuol dire molto per me. Oggi è tutto molto breve e tutto molto veloce. Hai dedicato del tempo per questa riflessione, credo di doverti dedicare io qualche riga per ringraziare.
Siamo lontani adesso ma ti mando un abbraccio virtuale, che ci riavvicina un po’.
Con affetto e stima.
Alessandro
Grazie Alessandro per questo scritto. E un abbraccio anche a te, anzi, tutti quelli che servono per affrontare il buco nero. Forza!
"Se non offende nessuno - che conta, aggiungo io - non hai detto niente". In un mondo di persone e purtroppo anche giornalisti che non dicono niente, Alessandro Sahebi ha molto da dire. E insegna a noi come ripeterlo al meglio.