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La sera del 23 dicembre passeggiando tra i negozi alla ricerca di regali tardivi. Mi sono ad un certo punto trovato di fronte ad una scena che definirei un saggio sul pervasivo senso di colpa con cui il neoliberismo capitalista ci ha abituato a vivere e che, colpevolmente, un certo tipo di attivismo sostiene. C’entrano l’orario di un bar, una signora impellicciata e l’inganno di una parola che sempre più mi è indigesta: privilegio. Ma prima di raccontarvela vi racconto ciò che ho fatto una volta che ho concluso quel tour forzato di shopping natalizio.
Di quale privilegio economico godi?
Arrivato a casa, un po’ turbato da quanto è avvenuto, ho fatto su Instagram un piccolo sondaggio: ho chiesto ai miei follower quale fosse il loro più importante privilegio economico.
Non mi aspettavo molte reazioni a dire il vero ma, evidentemente, mi sbagliavo alla grande. Nell’arco dei primi quindici minuti sono stato sommerso da più di duecento risposte, tanto che (scusandomi) temo di dover ammettere di non aver il tempo di leggerle tutte.
Ma molti riscontri coincidono e ritornano spesso, alcuni li riporto qui.
C’è chi ha avuto il privilegio di studiare senza esser costretto a lavorare. C’è chi ha avuto il privilegio di ereditare una casa e quindi di non essere obbligato a vivere in affitto. C’è chi ha due genitori, entrambi lavoratori. Chi ha avuto la pensione, chi una borsa di studio, chi un contratto stabile, a tempo indeterminato o una paga dignitosa. C’è chi ha avuto il privilegio di accedere a cure o a servizi di supporto alla salute mentale. Chi, qualcuno ha scritto, il privilegio di essere benestante.
Tutte dimensioni favorevoli allo sviluppo di una persona libera dalle catene del bisogno, sia chiaro. Ed è perfettamente normale sentirsi a disagio quando si è di fronte a qualcuno che, al contrario, vive in una condizione che non gli permetta di godere di uno di questi privilegi.
Ma c’è un ma. C’è trappola narrativa di fondo: nessuno di quelli elencati qui sopra è un privilegio. Nessuno. È la sottile ma fondamentale differenza tra privilegio e diritto. Ed è, sul piano della giustizia sociale, la madre di tutti gli inganni.
Stai bene? Sentiti in colpa!
Uno dei capolavori meglio riusciti dell’ideologia capitalista è stato quello di instillare nelle menti dei cittadini che i diritti siano beni scarsi, sottrattivi e di lusso così da poter rendere meno odioso l’arretramento del welfare state e servizi e, di fatto, eradicare sul nascere ogni forma di rivendicazione politica.
Le pensioni? Un saccheggio generazionale. I diritti sul lavoro? Svantaggiano i neoassunti. Un reddito per i poveri? Un danno alla classe media.
Insomma, quelli che fino a non molto tempo fa potevano essere comunemente considerati diritti basilari e inalienabili di ognuno oggi sono divenuti, grazie ad un artificio narrativo, privilegi per pochi. O tuttalpiù concessioni elargite col contagocce e di cui, in ogni caso, è meglio non farne un’abitudine.
Studiare liberi dal fardello della povertà, il diritto ad un tetto, un lavoro sicuro e ben retribuito o la cura di malattie mentali sono solo alcuni esempi di diritti (previsti oltretutto dalla nostra Costituzione) che rendono oggi gli individui colpevoli di essere benestanti.
Come se l’essere benestanti, letteralmente essere in una condizione di benessere, possa essere considerato in sé essere una colpa.
Abituato alla scarsità il cittadino del regno neoliberale vi si abitua e in un contesto di penuria strutturale compete con il proprio simile, arrivando a ritenere odioso un beneficio che possa giovare al concorrente, finanche quando questo possa giovare ad esso stesso.
Il capolavoro è servito: guerra tra poveri mossa da invidia diffusa e un’asta al ribasso sulle pretese e sui diritti.
A dar manforte all’egemonia culturale neoliberale ci ha pensato poi l’activism industrial complex, ovvero il sistema di intreccio tra attivismo individuale e comunicazione digitale basato principalmente sulla mercificazione delle battaglie attraverso collaborazioni con brand. Il concetto di privilegio evoca un’emozione prettamente “sociale”, il senso di colpa, che turba profondamente chi ne è colpito e lo rende più vulnerabile e insicuro. Lo spinge a fare azioni sul breve termine semplici e viscerali - come mettere like, che è la metrica con cui l’attivista può rivendere se stesso alle aziende - ma lo inchioda ad un autoflagello continuo sul lungo periodo. Del resto due millenni di cristianesimo hanno insegnato agli influencer buoni che far regredire i propri follower in docili penitenti è una forma di manipolazione che funziona abbastanza bene per restare saldi punti di riferimento di un gregge schiacciato dal tormento e inerme nella sua presunta colpevolezza.
La retorica di sostituzione concettuale dei diritti con i privilegi iper responsabilizza gli individui e depoliticizza le lotte, solidificando i rapporti di forza che pervadono l’ingiusto status quo in cui siamo immersi.
Ma abbiamo capito cosa sia il privilegio?
Che poi, basterebbe parlarci, con le parole. Privilegio viene dal latino privilegium, composizione di privus (che sta da sé, singolo) e lex (legge). Ovvero richiama (o dovrebbe richiamare) ad una “disposizione che riguarda una persona singola”.
Insomma, una legge fatta su misura per qualcuno e che per questo è odiosa. Privilegio può essere il diritto effettivo di grandi aziende e multinazionali di trasferire le proprie sedi all’estero per non pagare le tasse. Privilegio può essere avere un patrimonio che ti permetta di vivere nel superfluo più sprezzante. Privilegio, in ambito economico, può essere volare da Milano a Parigi a bordo di un jet, perché per questioni economiche e ambientali non è verosimile pensare che tutti possano avere il proprio aereo privato.
Ed è qui il punto: il privilegio è ciò che dovrebbe essere eliminato in quanto dannoso, preso dall’alto di una condizione di (appunto) privilegio e riportato a livello degli altri.
Il diritto è ciò che invece dovrebbe appartenere a tutti e che se dovesse essere negato a qualcuno configurerebbe una vera e propria ingiustizia.
Confondere i due termini attiva un cortocircuito cognitivo che rischia di colpevolizzare chi vive in una condizione di semplice e manifesta giustizia.
Il pensionato, chi riceve un sussidio, chi è aiutato negli studi, chi eredita la casa della nonna: non sono privilegiati da odiare. È invece aberrante che ci siano ultrasessantenni forzatamente trascinati ai lavori forzati, che ci siano studenti siano costretti a sacrificare la salute mentale per finire l’università o che per vivere in una grande città una giovane coppia sia costretta a pagare affitti folli.
E possiamo far evadere il discorso ad altri ambiti, come quando mi è stato fatto notare di avere il privilegio di poter camminare per Milano in tarda serata senza sentirmi in pericolo. Retoriche come questa rischiano di evocare l’odio verso di me, in quanto uomo, in quanto fruitore di qualcosa di ingiusto. Quando camminare serenamente alle undici di sera non è un privilegio, quanto più un diritto, e la soluzione non passa di certo da limitare le mie uscite serali ma da misure in ambito legislativo e culturale per far sì che tutti e (soprattutto) tutte possano fare lo stesso. La retorica del privilegio ci divide, spesso ci rende avversi gli uni agli altri, ci rende meno coscienti delle aspirazioni politiche che la working class dovrebbe fare sue.
Le risorse per vivere bene ci sono, ma sono distribuite a livello globale in modo ingiusto e crudele. Stare bene non può essere considerato un privilegio.
La signora al bar
Ci ho messo un po’, ma ecco cosa è successo. Stavo bevendo un caffè al bancone di un bar quando, ad un tratto, una signora impellicciata si avvicina ai due inservienti, un ragazzo e una ragazza di poco più di vent’anni. Senza salutare né mostrando alcun accenno di empatia chiede “A Natale siete aperti?”. Dopo aver ricevuto risposta affermativa se ne va, senza salutare, lasciando attoniti i due baristi che mi guardano: “Beh, non tutti abbiamo il privilegio di non lavorare a Natale”.
Natale non è un privilegio
Non c’è festivo, non c’è domenica, non c’è orario che tenga. Produrre sempre, consumare senza sosta. Tutto questo ci sembra normale, anche quando tradisce la nostra stessa natura. Uno degli oggetti di studio più misteriosi e interessanti della materia antropologica è quello del rito collettivo: quasi tutte le comunità di Homo Sapiens hanno infatti sviluppato all’interno del proprio impianto culturale sospensioni collettive del tempo “ordinario” (quello che tipicamente impieghiamo per assolvere alle nostre imprese individuali) in favore di riti straordinari in cui le comunità si riuniscono e, il più delle volte, celebrano qualche cosa. Che sia una festa, un sacrificio o un giorno di riposo il rito collettivo è ciò che ci ricongiunge alla nostra dimensione sociale e ci fa sentire parte di qualcosa di più grande e straordinario. Ci rende qualcosa in più della somma di soggetti: un umano collettivo. Parteciparvi significa essere inclusi. Significa esserci, riaffermare la nostra natura di animali sociali e di individui all’interno della collettività. È diventare altro, arricchirsi, costruire insieme nel tutto e ritornare migliori nell’Io.
Costringere un lavoratore a rinunciare a questa dimensione per un servizio non essenziale è aberrante ed evidenzia come l’unico rito collettivo al quale siamo chiamati sommessamente ad obbedire sia quello del mantenimento dell’ordinario senza sosta. La mercificazione totale del tempo a cui il capitalismo ci ha abituati non prevede sospensione, non prevede evasione dalla figura archetipa del lavoratore-consumatore in cui siamo ingabbiati, al punto da definirci, al punto di rappresentare il luogo in cui noi, in massimo grado, siamo portati a percepire di appartenere al reale. Siamo passati, per pura convinzione ideologica, dall’economia al servizio delle persone alle persone al servizio di un’economia che non si può per nessuna ragione fermare.
Con buona pace di chi, come i due giovani lavoratori, avrebbero preferito forse passare tempo con le proprie famiglie anziché servire cioccolata calda ad ultraottantenni impellicciate.
Natale è un diritto
Il tempo per partecipare ad un rito collettivo dovrebbe essere un diritto? Dovremmo forse riaffermarlo, senza paura di apparire obsoleti o radicali. Questo non significa credere ossequiosamente nei riti in quanto religiosi, magici o sacri - la storia umana ne ha collezionati di veramente orribili e terrificanti - ma è necessario tornare a credere nel significato sociale che i riti straordinari hanno nella nostra esistenza di individui e di cittadini. Può non piacerci il Natale in sé, possiamo non credere al suo significato e non aderire alla sua simbologia ma non possiamo non ammettere che, anche nella sua versione più laica, ricopra un’importante funzione per le persone e per le famiglie.
E che godere del Natale debba essere un diritto per tutti e tutte.
In questi giorni dovremmo tutte e tutti essere semplicemente dove amiamo stare, con chi amiamo stare. Anche solo con noi stessi. Ma rigorosamente fuori dall’ordinario.
Che è un diritto, non un privilegio.
Il diritto all’extra ordinario e all’evasione dal reale.
Diritto che dovremmo sentire profondamente come di tutti, senza necessariamente sentirci in colpa.
Mi auguro che il vostro Natale possa essere davvero così.
Qualsiasi sia il valore che darete a quel giorno.
“O tutti o nessuno, o tutto o niente”.
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Ho scritto la mail un po’ di fretta, spero non ci siano troppi errori.
Buon Natale e un abbraccio forte.
Alessandro
Mi sono regalata questi 7' e 49" di bagno di realtà. Grazie come sempre per tenere viva la fiamma della consapevolezza di classe ❤️ Buone Feste a te ✨
Anche la possibilità di scrivere newsletter è un privilegio.
Scherzi a parte, credo che in molti, compreso io stesso, abbiano risposto al tuo sondaggio non pienamente consapevoli del significato della parola "privilegio"; per questo le risposte ne sono riuscite fuorvianti. Dopo aver letto il tuo articolo dubito che ci sarebbero state le medesime dichiarazioni.
Trovo inoltre molto interessante il ragionamento che hai fatto attorno l'evento del Natale, come evento straordinario di comunità. Penso che da circa un paio di decadi, almeno per il contesto italiano, il concetto di comunità sia in fase di profonda trasformazione, passando da una comunità legata ai luoghi, le tradizioni ed i valori, ad una comunità basata solo sulle attività economiche. Per questo il Natale perde completamente di significato a livello di comunità tradizionale e rimane solo ancorato al significato che gli attribuiamo singolarmente, o alla comunità "economica" cui apparteniamo. Ho lavorato anche io per molti anni il giorno di Natale, ed anche per tutti gli altri giorni festivi, ed ho avuto modo di riflettere su queste tematiche e notare come le feste oggi siano prive di significati collettivi e ricche di invece di significato personale.
Ad ognuno quindi la propria festa, nel bene e nel male.