Tempo di lettura: 5 minuti e 50 secondi
Il mondo sembra aver virato ancora più a destra. Non è una deduzione elettorale ma, pare, un vero cambio di paradigma culturale. Fino a poco fa, bastava accendere la TV o scrollare sui social per illudersi che temi come diritti civili e diversità stessero avanzando e si stessero radicando nel mainstream. Sembrava un miracolo: il capitalismo che si dipingeva di progressismo, parlava di giustizia, di inclusione. Sembrava quasi potesse parteggiare per le minoranze. Poi, la svolta. Le aziende stanno facendo marcia indietro. I team dedicati alla diversità vengono tagliati, le campagne progressiste cancellate. È la fine di una fase. Resta pochissimo sul campo.
Influencer arricchiti, una sensazione di stanchezza verso l’impegno politico e una domanda: che sta succedendo?
Il declino del capitalismo woke
Con l’arrivo della pandemia abbiamo tutti assistito ad un processo di reinvenzione comunicativa su larga scala operato dalle grandi aziende. All’improvviso, temi come uguaglianza, inclusione e sostenibilità sono diventati centrali nel marketing, nell’organizzazione interna, persino nella facciata pubblica delle imprese. Non per convinzione, ovviamente. Ma per necessità. Le aziende non volevano essere travolte dall’ira dei consumatori più sensibili e non volevano finire nel mirino degli attivisti, o almeno di quella porzione di attivismo che aveva un qualche potere mediatico sui social e si era elevato a giudice morale di tutto e tutti.
Ed è così che il capitalismo ha indossato una nuova maschera: il cosiddetto (in origine con accezione dispregiativa) capitalismo woke, ovvero una forma di capitalismo in cui le aziende adottano tematiche sociali come parte della loro cultura aziendale.
Ne avrete in mente tanti di esempi: quote minoritarie, greenwashing, pubblicità forzatamente inclusive.
Quello tra alcuni attivisti e aziende è stato un matrimonio di convenienza tra la retorica dell’inclusione e la sete di profitto: appagava (e pagava) entrambi. Ma era un matrimonio fragile, e ora pare stia crollando.
Per anni, ci siamo abituati a vedere aziende assumere "esperti di sostenibilità" o "diversity manager", e lanciare workshop per sensibilizzare sui temi più disparati.
In alcuni casi sedicenti attivisti — o meglio, influencer travestiti da tali figure — sono stati cooptati come consulenti. Un business parallelo che avrà avuto anche aspetti positivi, non si può negare, ma che ha costruito carriere intere, trasformando l’impegno sociale in una nuova merce (Se l’attivismo diventa un mestiere, quindi un bene scarso e strutturalmente inaccessibile a tutti, è davvero inclusivo? Questione morale che non tralascerei).
Il paradosso delle “aziende woke”
Quello delle grandi aziende si è rivelato un paradosso continuo. Da un lato, cambiavano i colori dei propri loghi con la bandiera arcobaleno nella settimana corretta, mettevano persone razzializzate in posizioni apicali – e ben visibili – con tanto di campagne di sensibilizzazione commoventi. Ma dall’altro, si mostravano decisamente meno entusiaste nel fare qualcosa di realmente incisivo. Aumentare gli stipendi dei propri dipendenti? Troppo oneroso. Interrompere l’orrendo processo di esternalizzazione dei lavori più degradanti verso il Sud globale? Decisamente fuori discussione (il razzismo verso un lavoratore lontano del resto è ben più tollerato).
Abbiamo forse assistito ad un gigantesco balletto mediatico, un gattopardismo ben oliato: tutto sembrava dover cambiare per far sì che nulla cambiasse davvero. I brand si inzuppavano di inclusione, ma il loro potere economico – quello che, va detto, più di tutti determina la traiettoria esistenziale delle persone – è rimasto inalterato.
Nessuna redistribuzione delle risorse tassando i miliardari. Nessun intervento sui rapporti di forza strutturali. Nessun cenno alle ingiustizie fiscali delle grandi multinazionali (Amazon, in percentuale, paga meno tasse del tuo fruttivendolo ma elargisce lauti bonus e dividendi ai suoi azionisti e manager). Se qualcuno poi sollevava la questione di classe, veniva prontamente ignorato o dipinto come un relitto di un pensiero obsoleto e vetero-marxista.
Come argomenta Fisher in Realismo capitalista, il capitalismo non può risolvere i problemi che genera, ma solo mascherarli. E il capitalismo woke si è dimostrato l’ennesima maschera di un modello che tutto voleva fuorché cambiare il mondo. Di un modello che voleva neutralizzare la legittima rabbia con un’inclusività estetica, per mezzo di un attivismo cosmetico.
E ci è riuscito, almeno per un po’.
Woke is broke
Ora, però, tutto questo si sta sgretolando. Le aziende stanno abbandonando i progetti woke con la stessa rapidità con cui li avevano adottati. Perché? Per un motivo tanto semplice quanto brutale: non funzionano più. La cultura woke non genera più profitti. Non è più cool. Non vende.
Negli ultimi mesi, tra i corridoi delle corporate e gli uffici marketing, si è diffusa una narrativa che riassume tutto: “woke is broke”. Essere woke, oggi, è visto come un rischio. I flop colossali di Disney e Pixar – regine della proiezione culturale di massa – hanno imposto un drastico ripensamento alle industrie creative. Toyota, Harley-Davidson e Nike hanno già ridimensionato o azzerato intere campagne incentrate sull’inclusività. Parallelamente, colossi come McDonald’s, Meta, Google e Zoom hanno soppresso o drasticamente ridotto i team dedicati alla diversità, all’uguaglianza e all’inclusione (DEI, per usare l’acronimo che per qualche anno è stato usato anche nei board aziendali).
Mark Zuckerberg, in particolare, ha lanciato un segnale inequivocabile: il team responsabile delle policy di analisi sull’odio e la discriminazione di Facebook e Instagram è stato spostato dalla progressista California al conservatore Texas. Per molti questa è una mossa strategica per posizionarsi meglio in uno scenario politico mutato, una sorta di inchino simbolico al crescente potere dell’America conservatrice.
Zuckerberg, come Musk e Bezos, sembra aver compreso che il vento soffia da destra e che avvicinarsi al neo-eletto presidente Trump potrebbe essere non solo prudente, ma addirittura necessario per la sopravvivenza.
Ma la svolta più significativa viene, senza dubbio, da BlackRock. Il più grande gestore patrimoniale del mondo ha recentemente abbandonato l’alleanza Net Zero Asset Managers (NZAM), un’iniziativa che, dal 2021, aveva l’obiettivo di promuovere la neutralità carbonica tra i colossi della finanza globale. Se neanche il più potente attore del mercato finanziario globale vede più il green come una scelta strategica, allora possiamo tranquillamente dire che il trend è al capolinea. Neanche l’ambiente piace più.
Insomma, il matrimonio tra il capitalismo e i valori progressisti sta subendo un divorzio. Era un’unione di convenienza, e come tutte le unioni di convenienza, è durata solo finché ha generato guadagni. Ora, con il profitto in bilico, la facciata woke viene abbandonata, lasciando dietro di sé solo la consapevolezza che non è mai stata una scelta di valore, ma una scelta di mercato.
Insomma, il re è nudo. E ora che la maschera è caduta, è chiaro che un certo modello comunicativo non era altro che un anestetico sociale. Un modo per disinnescare le lotte. Un modo per farci credere che il sistema stesse migliorando, quando in realtà non faceva altro che rafforzarsi. Non illudiamoci. Il capitalismo non diventerà mai progressista. Non può. Come diceva Gramsci, il vecchio muore e il nuovo non può nascere. Il capitalismo woke è morto. E noi siamo ancora qui a combattere con il vecchio.
”La strada giusta”
Quando ho iniziato a notare che intrecciare la pubblicità all’attivismo era un’arma a doppio taglio, ho capito di essermi seduto sulla barricata della minoranza. L’idea generale - che mi lasciava non poco perplesso - si basava sull’impressione per cui, facendo rumore e cambiando i valori di consumo, anche le aziende si sarebbero adattate. E quando facevo notare che sulle questioni insidiose, come quelle di classe, gli attivisti rischiavano di trovarsi con le spalle al muro, bloccati nella difficile scelta tra una collaborazione e il conflitto, la risposta era sempre timida: un annuire vago, un "Sì, la questione di classe è importante, va tenuta in conto". Ma mai un vero confronto con ciò che la questione di classe comporta: rimettere in discussione il sistema economico stesso, il modo in cui il lavoro viene sfruttato e in cui il Pianeta viene impoverito. Quello su cui queste stesse aziende si fondano e con cui non avrebbero mai mediato.
Non era il modo con cui le grandi aziende operavano a dover essere rimesso in discussione. Era l’idea stessa che potessero esistere grandi multinazionali che avremmo dovuto problematizzare
È importante notare come un attivismo che non rimette in discussione il sistema economico finisca inevitabilmente per sposarne l’identità. E nell’identità capitalista, la dipendenza dal consumo è un pilastro fondamentale. Anche l'attivismo, così, è diventato merce: una narrativa confezionata, pronta all’uso, che ha riempito gli scaffali dei social con battaglie quotidiane, consumate a velocità frenetica. Ma di quell’intensità e di quel clamore oggi sembra esser rimasto poco, se non un vuoto rumoroso. Il consumismo dell’indignazione, ovvero la necessità di un certo attivismo social di trovare ogni giorno un motivo per puntare il dito dall’alto di una sedicente superiorità morale e conoscitiva, ha forse ridotto le battaglie politiche a battaglie culturali, d’immagine, senza alcun interesse nel cambio profondo delle strutture economiche. Risultati positivi ce ne sono stati, e non sono certo qui a buttare via il bambino con l’acqua sporca. Più di qualcuno ha saputo sporcarsi le mani, uscire dalla bolla digitale e impegnarsi nel mondo reale, ottenendo risultati tangibili. Per quanto rare, ci sono state battaglie che hanno lasciato un segno concreto, anche contro un sistema che non rende mai facile cambiare le regole del gioco.
Ma ciò di cui forse non ci si rendeva conto, forse perché abbagliati dal luccichio delle piattaforme online, è che una delle caratteristiche principali del consumismo è il suo assoggettamento a moda e tendenze evanescenti nel tempo. Insomma, dura poco e ha una crudele scadenza.
Lo sfruttamento sistemico è rimasto e si è consolidato, l’approccio woke delle grandi aziende è sfumato e ora di questi anni di campagne mediatiche goffamente dipinte di rosso probabilmente non rimarrà molto.
Sarei un ciarlatano se fossi in grado di indicare la strada giusta da intraprendere adesso, un individuo solo non può risolvere le contraddizioni collettive. Ma ho il sospetto che, attraversata questa fase al fianco di case di produzione, pubblicitari e grandi aziende, possiamo trarre una lezione: chi detiene il potere difficilmente lo cederà.
Viviamo in un sistema basato sul potere economico, dove chi detiene il potere economico controlla anche quello politico. Non è solo una questione culturale, l’elefante nella stanza è la sfera materiale che regola concretamente le nostre vite: il lavoro, la redistribuzione della ricchezza, il possesso dei mezzi di produzione, le disuguaglianze salariali e fiscali. È il fondamento su cui si costruiscono le più violente e intollerabili gerarchie. Nemmeno nei disegni più arditi della nostra immaginazione siamo riusciti a sfidare davvero il cuore del sistema, nemmeno con la speranza abbiamo saputo volare lontano. E senza quel coraggio, forse, tutto il resto resta una facciata.
La questione di classe, scarsamente investita dagli interessi del capitalismo woke, forse merita, di nuovo, una possibilità.
Ci proviamo?
Ultime note
Per approfondire ulteriormente il tema del "capitalismo woke" e delle sue implicazioni, si possono consultare le opere di autori come Vivek Ramaswamy, che nel suo libro (in inglese) "Woke, Inc." analizza criticamente l'ipocrisia delle aziende che adottano facciate progressiste per mascherare pratiche discutibili. TW: è un libro apertamente di destra ma contaminarci con altri punti di vista, pur senza sposarli, non fa di certo male.
C’è poi Carl Rhodes, autore di "Woke Capitalism: How Corporate Morality is Sabotaging Democracy", (anche in italiano) che esplora come la moralità aziendale possa minare i principi democratici.Tutto ciò che ho detto potrebbe essere sbagliato. Lo so, e lo accetto. Ma c’è qualcosa che mi interroga ogni volta che mi imbatto in critiche aggressive: come si arriva a un’opinione consolidata? Se un punto di vista non ortodosso o marginale viene brutalmente silenziato, cosa ne è della pluralità e del dialogo?
Vi chiederei, se possibile, di mantenere un tono rispettoso e di riflettere sul peso che date a chi cerca di invalidare con violenza il prossimo, chiunque esso sia. Perché ogni volta che facciamo da cassa di risonanza a queste dinamiche, contribuiamo a un sistema che schiaccia il confronto.
Grazie ai sostenitori che permettono economicamente a questo progetto di esistere. Pubblico poco, sempre meno, ma cerco di farlo con attenzione e rispetto per chi legge. Non ho la pretesa di essere un punto di riferimento: il mio unico desiderio è che quanto scrivo apra una discussione.
Ogni caffè virtuale ricevuto è molto più di un gesto simbolico: è un segnale che questo progetto ha un significato per qualcuno. Ad oggi, 2180 persone hanno deciso di offrirmi un caffè, anche solo una volta, o un piccolo contributo mensile (da 3 euro).
Non è un obbligo, né voglio che chi non può permetterselo si senta escluso: questa newsletter resterà sempre accessibile a tutti.Ma se puoi permettertelo e senti che quello che leggi qui ti ha regalato una riflessione, un'idea, o anche solo un momento piacevole, puoi offrirmi un caffè qui sotto.
Chissà, magari un giorno quel caffè riusciremo a berlo davvero insieme.
OFFRI UN CAFFE’
Grazie, un abbraccio.
A.
Ciao Alessandro, niente da eccepire sulla tua argomentazione — sono d’accordo su tutto — volevo solo condividere una piccola testimonianza sulla mia esperienza all’interno di un “comitato DEI” del dipartimento di una grande azienda tech (Google, dipartimento in questione News, dove ho lavorato per sei anni, qui negli Stati Uniti).
Se l’impegno DEI delle aziende a livello macro è, come dici tu, assolutamente di facciata, a livello micro tantissimi dipendenti invece ci credono (hanno creduto) veramente e si sono impegnati veramente. Così eravamo noi, con le unghie e con i denti. A Google News abbiamo avuto la fortuna di essere guidati da una manager di alto livello che non le mandava a dire a nessuno, ed è riuscita a strappare alla leadership l’ok per centinaia di migliaia di dollari investiti in iniziative DEI sincere, genuine, che sapevamo essere “a drop in the bucket” — la quantità di dollari non potrà mai corrispondere mai alla qualità del cambiamento, appunto — ma che portavamo avanti in maniera autentica. E io penso che a livello individuale, nel cuore di certi colleghi, nel piccolo di qualche singola vita, qualcosa abbiamo mosso.
Ma ad alto livello, in maniera sostenibile, duratura e grandiosa, ci scontravamo con qualcosa di più grande di noi, difficile da quantificare o descrivere in termini concreti: il peso e il funzionamento dell’azienda nella grande logica del capitalismo, mediato dalla figura di qualche SVP o VP. Lì non ci era permesso di arrivare. La manager di cui sopra è stata costretta a rassegnare le dimissioni in seguito alle proteste che ha portato avanti dopo che una VP ha deciso di cancellare un incontro su, pensa un po’, la discriminazione di casta all’interno della comunità indiana. Ai tempi la storia finì sul Washington Post: https://wapo.st/3WhZLDz
È questo il paradosso di tante iniziative DEI all’interno di aziende capitalistiche. Hanno trovato spazio perché faceva comodo a chi sedeva nella stanza dei bottoni. Ma spesso venivano portate avanti da persone che davvero, in queste iniziative, coglievano un’opportunità per dare un senso più profondo al proprio impiego — pur sapendo bene (almeno per me era chiaro) che se non avesse fatto comodo a “the powers that be” allora questa opportunità non sarebbe neanche esistita.
Abbiamo interessanti ricerche scientifiche che dimostrano come la vergogna e l'indignazione siano in grado di amplificare la motivazione ad acquistare gadget che richiamano la propria appartenenza alla comunità GRSD. Altre ricerche dimostrano inoltre come l'"attivismo" sui social di fatto diminuisca la necessità da parte delle persone oppresse (ma non abbastanza evidentemente) di scendere in piazza per i propri diritti.