In passato non ho avuto un buon rapporto con la religione. La mia famiglia ha conosciuto la violenza religiosa nella sua forma più brutale. Nel1979 gli islamisti presero il potere in Iran, costringendo all’esilio mio padre e tutti i suoi fratelli, sparpagliandoci su tre continenti diversi, come semi trascinati dal vento. Ho sofferto moltissimo la mia metà senza terra e questo ha indurito, per tanto tempo, il mio cuore e la mia mente nei confronti della spiritualità. Portandomi all’ateismo intollerante. Come sia andata a finire, però, ve lo racconto dopo. Parto da Papa Francesco.
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Nelle ultime ore, almeno nella bolla che riesco a osservare, la figura di Papa Francesco è diventata terreno di scontro tra chi lo considera una voce di rottura progressista e chi, invece, ne denuncia una pericolosa santificazione laica nonostante dei valori morali conservatori. Personalmente, non ho intenzione di trarre conclusioni affrettate, non ora. Ma credo che, prima di discutere del Papa, dovremmo fermarci un attimo e chiederci davvero cosa sia l’istituzione che rappresenta. E no, la Chiesa non è (solo) lo Stato del Vaticano, non è (solo) potere. E soprattutto Francesco, compagno o oppressore che sia, non è la Chiesa: ne è il vertice visibile, ma piaccia o non piaccia non ne esaurisce l’essenza.
Un errore concettuale
No, la Chiesa non è soltanto quel nodo stretto tra interessi e denaro che irretisce i credenti più ingenui, né si esaurisce nella porpora opulenta di un cardinale che si aggira tra gli ori sfarzosi della sua residenza vaticana. È anche questo, sì — sarebbe ingenuo negarlo — ma fermarsi a questa immagine sarebbe un errore grossolano. La Chiesa è, innanzitutto, una comunità immensa e multiforme, fatta di quasi un miliardo e mezzo di persone, ciascuna con le proprie contraddizioni, i propri meriti, le proprie fragilità. Lo dice già il nome da cui deriva Chiesa: ekklesia, assemblea. Prima di essere un'istituzione, la Chiesa è un popolo.
Appartenere alla Chiesa Cattolica non equivale dunque a un’adesione incondizionata al potere temporale del Vaticano e delle sue forme di potere contemporanee. Significa piuttosto riconoscere, anche con un certo spirito critico, il valore di una forma collettiva attraverso cui coltivare la propria spiritualità, un luogo simbolico in cui cercare — insieme — un senso più profondo.
E no, essere cattolici non vuol dire essere un’estensione vivente del Papa. Si può appartenere alla Chiesa pur dissentendo dal suo operato politico, pur non condividendo tutte le sue posizioni su questioni centrali del nostro tempo - Bergoglio in questo senso ha raccolto più volte dissenso da destra, anche dalla destra cattolica.
Certo, è inevitabile che la sua voce (a mio avviso più umana che divina) risuoni con forza, che orienti e influenzi, e di questo occorre essere consapevoli e attenti. Ma non per questo ciò che dice diventa automaticamente la visione univoca del mondo cristiano. Essere guida non significa incarnare ogni singola sfumatura dell’insieme.
La Chiesa, ad ampio spettro
La Chiesa Cattolica, come detto, è un fenomeno umano vasto, stratificato, talvolta contraddittorio. È un corpo vivente che abbraccia ogni continente e si estende lungo più di due millenni di storia. È stata l’ombra lunga dell’Inquisizione, la mano pesante del potere politico, l’istituzione che ha soffocato la libertà sessuale e infligge, come tutte le religioni abramitiche, un peso sproporzionato sulle spalle delle donne. Ma è anche altro e sarebbe ingiusto negarlo.
È il prete di quartiere che, lontano dai riflettori, scende in strada per strappare i dimenticati alla marginalità, senza reels né podcast motivazionali di corredo. È l’associazione che, silenziosamente, cura le ferite dei migranti sulla rotta balcanica. È Don Minzoni, ucciso barbaramente dai fascisti. È Don Puglisi, colpito vigliaccamente da Cosa Nostra. È Don Gallo, voce scomoda nei giorni del G8 di Genova.
La Chiesa è stata complice di regimi e derive politiche reazionarie, sì. Ma per qualcuno è stata anche luce, ribellione, dignità. Soprattutto in Sud America, la Teologia della Liberazione ha tentato di tenere insieme il messaggio cristiano con le istanze del marxismo, nel tentativo di spezzare le catene del colonialismo occidentale e dare significato al desiderio di emancipazione politica.
Tutto questo — nel bene e nel male — è Chiesa. Non grazie al Vaticano ma, spesso, nonostante esso. Pur rimanendo Chiesa, pur comprendendo posizioni apparentemente inconciliabili.
L’ateismo politico
Di fronte a una realtà tanto vasta e ambigua, si può scegliere di liquidarla del tutto, invocando la sua estinzione, decostruendo ogni sua forma, mettendola al rogo dell’ironia o dell’ateismo. E ci sta.
Oppure — per fede, per ostinazione, o per una sorta di intuizione spirituale — si può, come fa qualcuno, decidere di restare a bordo, provando a orientare questa gigantesca imbarcazione verso rotte più giuste. Perché la Chiesa ha escluso. Ha colpito. Ma c’è chi, pur essendo tra coloro che ha ferito, ha scelto di non andarsene. Di rimanere dentro, di farsi sentire. Che questa scelta piaccia o meno, è reale. Ed è degna di rispetto perché ha portato in quell’assemblea una voce di progresso. O almeno ci ha provato.
Ognuno, in base alla propria sensibilità religiosa o politica, troverà la propria posizione esistenziale e se qualcuno è convinto che nulla della religione possa essere salvato non sarò certo io a fargli cambiare idea.
Ma se, con una presunta superiorità morale e storica, ci si ostina a guardare al credente come a un ingenuo, un venduto, un complice, o — peggio — un nemico, allora il dialogo evapora. E ciò che resta è solo il tifo. O una guerra di religione in miniatura. Un Don Camillo contro Peppone che sarebbe il caso di archiviare col secolo scorso.
Immaginate un cattolico che si avvicina con curiosità, magari con disagio, al vostro spazio, alla vostra proposta politica o alle vostre idee. Cosa trova? Accoglienza o sberleffo? Ascolto o caricatura?
La risposta a questa domanda potrebbe coincidere, in parte, con le ragioni per cui certa sinistra, oggi, continua a risultare così profondamente respingente.
Collettività non scelta
Nel linguaggio semplificato che oggi domina i social network, l’Altro è spesso valutato secondo parametri rigidi di perfezione e coerenza assoluta. Si è instaurata una dinamica crudele: da una parte pochi giudici — abilissimi nell’arte dell’opinione, meno nel maneggiare la complessità dei fatti — dall’altra i giudicati, esposti alla pubblica sentenza. Non si cercano più le cause storiche, le forze sistemiche, le strutture oppressive. Si va alla caccia di un binomio elementare: puro o impuro. Chi non corrisponde alla perfezione attesa viene marchiato, esposto alla gogna. E in questa patente dell’irreprensibilità, l’essere credenti è senza dubbio percepito come una macchia. Scegliere di restare cristiani un atto di incoerenza.
Essere cattolici, però, non è una scelta a tavolino. Non è un prodotto da scaffale che si è scelto. È qualcosa che si sente, che si attraversa. È una chiamata silenziosa che si accoglie, spesso con fatica, perché porta con sé il peso della collettività, l’uscita dal proprio individualismo, la necessità di costruire — tra dubbi e contraddizioni — qualcosa insieme all’Altro.
La condizione del fedele oggi, per certi versi, assomiglia a quella del cittadino in uno Stato moderno. Nessuno sceglie di nascere italiano. Ci si ritrova con questo passaporto, pesante di storia e contraddizioni, da portare nel bene e nel male. Giorgia Meloni, ad esempio, può non rappresentarmi affatto. Eppure, mi sento chiamato a rispondere, con responsabilità, anche per ciò che il mio Paese ha compiuto, dalle sue origini fino a oggi. Non ho scelto, ma cerco di migliorare.
Allo stesso modo, c’è chi porta, simbolicamente e con consapevolezza, la croce del cristianesimo — nonostante tutto. Certo, non esiste un obbligo esterno ad essere cattolici (come accade con la nazionalità). Ma ridurre la fede a un atto di coerenza individuale, intercambiabile, facilmente abbandonabile come una newsletter poco interessante, è una semplificazione ingiusta.
Esiste, è vero, l’eremitaggio spirituale delle religioni “fai da te e individualiste”, molto apprezzato nell’Occidente postmoderno. Una religione a misura, sartoriale, che non chiede mai il disagio dell’appartenenza. Ma questo rifugio individualista — nella fede come nella politica — è una scorciatoia. E non a caso, molti, fortunatamente, continuano a rifiutarla. Rimanere dentro, pur sentendosi spesso in contrasto, è forse la forma più autentica di vita collettiva.
È il gesto silenzioso di chi non fugge, ma resta. E nel restare, prova a cambiare sobbarcandosi l’incoerenza.
Su Papa Francesco
La complessità di un miliardo e mezzo di persone può riflettersi tutta anche in un solo volto. Qualunque esso sia. Anche in quello di Francesco, guida di una delle istituzioni più controverse e stratificate della modernità. È stato, senza dubbio, il Papa di affermazioni omofobe inaccettabili e posizioni vergognose e irricevibili su aborto e fine vita. Ma è stato anche il pontefice che ha sfidato, con fatica, l'establishment più reazionario — quello che aveva trovato espressione formale nel pontificato del suo predecessore, Joseph Ratzinger.
Ha pronunciato parole nette contro le ingiustizie sistemiche del capitalismo globale, contro la violenza climatica che colpisce i più fragili, contro il cinismo disumano del business bellico. Ha puntato il dito. In un tempo in cui molti attivisti "puri" preferivano i palchi sponsorizzati e l’armonia con l’algoritmo, lui ha usato parole scomode. Genocidio in primis.
Francesco ha fatto molto. Forse non abbastanza. Sicuramente non tutto quello che avrebbe potuto. Ha commesso errori, e non pochi. È rimasto — come inevitabile — parte di una struttura densa di ambiguità, opacità e potere. È giusto che ognuno, secondo la propria bussola etica, lo valuti.
Ma, mi sento di dire, è proprio il fatto che questa valutazione non sia scontata a renderla preziosa. Se ne parliamo, se ne discutiamo, evidentemente non possiamo annoverarlo tra i cattivi più cattivi. Il suo pontificato, nella sua contraddittorietà, non può essere schiacciato su etichette riduttive. Francesco compagno o Francesco oppressore: entrambi sono ritratti parziali, troppo comodi per una realtà che invece ci chiede di essere capita, prima di pretendere di volerla cambiare.
Certo è che il futuro potrebbe consegnarci un pontificato ben più conservatore — e qui, un brivido corre quando si pensa a figure come il cardinale ungherese Peter Erdo — e, che ci crediate o no, chiunque sostituirà Papa Francesco condizionerà il nostro futuro, la politica interna e la diplomazia mondiale. Forse per questo riscrivere alcune delle critiche più feroci rivolte oggi a Bergoglio non è un atto di indulgenza, ma, a mio modesto avviso, di lucidità storica. Non per assolvere, ma per comprendere e contestualizzare. Non per tacere di fronte agli errori e alle ambiguità, ma per non cadere nel gioco — facile, troppo facile — del nemico da annientare a tutti i costi.
Scrivere questa mail
La mia famiglia ha conosciuto la violenza religiosa nella sua forma più brutale. Era il 1979 quando il regime islamico prese il potere in Iran, costringendoci alla fuga, sparpagliandoci come semi trascinati dal vento dell’esilio. Da allora, non abbiamo più avuto un luogo che potessimo chiamare davvero nostro. Nessun focolare. Nessuna casa dei nonni dove radicare i ricordi, dove ritrovare l’odore del tè e la voce della storia.
Per anni ho guardato con un misto di stupore e rabbia la fascinazione di certi ambienti culturali progressisti per l’Islam. Quegli stessi ambienti in cui il velo veniva quasi celebrato come simbolo di autodeterminazione e libertà erano i miei: case del popolo, associazioni, centri sociali. Mentre per me — per noi Sahebi — quel pezzo di stoffa era il volto di una repressione violenta, di studenti scomparsi, di sangue familiare versato, di libertà cancellate con la forza. In risposta a tutto questo il mio ateismo giovanile non è stato una postura intellettuale, ma una trincea. Una battaglia. Una difesa viscerale e orgogliosa contro ogni religione, vista come narcotico delle coscienze, strumento del potere, architettura dell’oppressione. Ero in guerra, e avevo le mie ragioni.
Poi, un pomeriggio di novembre del 2007, mentre partecipavo a una manifestazione tra slogan e bandiere, vidi passare Don Andrea Gallo su un carro. Mi strappò un sorriso. Una scintilla di simpatia. Ma la soffocai subito, come fosse un tradimento. Non potevo permettermi quella crepa, avevo 18 anni e la coerenza per me era tutto.
Dieci anni dopo, per puro caso, mi capitò tra le mani un suo libro. Quelle pagine cambiarono tutto. Lentamente, senza clamore, iniziarono a scardinare le mie certezze. La mia diffidenza verso le religioni, così profondamente giustificata, così ben radicata, iniziò ad aprirsi. Prima al dubbio. Poi all’ascolto. Infine alla fede, in quella forma cristiana che avevo per anni combattuto con ogni fibra del mio essere.
Fu una conversione, sì. Ma non nel senso più scontato. Fu un ritorno alla complessità, al coraggio di lasciarsi toccare dalla insanabile contraddizione del credere.
Capì così che giudicare l’altro senza conoscerne la storia, senza fermarsi ad ascoltare le ragioni, è una forma raffinata di dogmatismo. Una fede, solo con un nome diverso, ma pur sempre cieca: l’ateismo intollerante.
E fu in quel momento che compresi, con una lucidità quasi devastante, che il rischio più grande di bollare ogni religione come imbecillità umana era diventare ciò che avevo sempre combattuto: pensiero dogmatico.
Tutto qua.
Alcuni appunti
1) Ho pensato bene di inviare questa mail. Il clima politico a sinistra è teso e le persone esposte sembrano, assetate di engagement, impegnate più in un’opera di annientamento reciproco che in una discussione finalizzata alla trasformazione del reale.
Apprezzerò tutte le critiche costruttive, ma ad improbabili e riduttive etichette non darò seguito, oramai è tutto un piatto blablabla che il più delle volte non mi interessa più.
2) Molti lo sapranno già. È nato il mio bambino. Romeo Sole. Avrei voluto dedicare a lui questa NL, ma credo che la riflessione che avevo in merito attenderà qualche giorno, spero perdoni papà per questo. Condivido con estrema gioia i motivi dell’assenza e del ritardo su questo numero e ringrazio tutti coloro che hanno scritto a me e a Francesca in queste ore. Il calore del vostro abbraccio collettivo si è sentito tutto. Grazie davvero.
3) Grazie alle 2.397 persone che credono in questo progetto e lo rendono possibile con il loro sostegno attraverso un caffè. Scrivo poco, è vero, ma cerco di farlo con attenzione e rispetto. Non ho mai pensato di dover intervenire su tutto: quando scrivo, è perché ritengo che valga la pena condividere una riflessione, un’idea, uno spunto di discussione. Non sempre ci azzecco, per fortuna. Le critiche, se costruttive, sono benvenute.
Ogni caffè virtuale che ricevo non è soltanto un gesto di cortesia: è un segnale concreto di fiducia. Ad oggi, 2.397 persone hanno scelto di sostenermi, anche solo una volta, o attraverso un contributo mensile. Non è richiesto, e chi non può permetterselo non sarà mai escluso da ciò che pubblico: questa newsletter resterà sempre gratuita e accessibile.
Se però ritieni che quanto hai letto ti abbia offerto qualcosa — uno spunto utile, un momento di riflessione — e se ti fa piacere, puoi offrirmi un caffè.
Un gesto semplice, sperando di berne uno dal vivo presto.
A presto
A.
Hai dato voce alle mie perplessità di questi giorni: da persona atea e femminista, non capisco questo accanimento nei confronti di un Papa che ovviamente è da valutare progressista non in senso assoluto, ma all’interno di una istituzione patriarcale e fortemente ancora alle tradizioni e al passato, e che piaccia o no ha una forte influenza su milioni di persone. Dato per scontato che non si può distruggere ciò a cui tante persone credono e si affidano, è necessario collocare Papa Francesco all’interno del suo contesto, e facendolo non è possibile non valutare positivamente i suoi tentativi di apertura. Come non pretendiamo che le galline inizino a volare, non possiamo pretendere che i Papi inizino a farsi promotori di istanze sociali e civili progressiste in senso assoluto, ma possiamo comunque apprezzarne gli sforzi e gli aspetti positivi che vanno verso il miglioramento di una società sempre più involuta e abbrutita.
Come sono preziose le tue parole 🙏, grazie per averci ricordato anche questa volta che con i giudizi "o bianco o nero" non si va da nessuna parte; e in questa epoca storica è una consapevolezza che veramente non possiamo permetterci di perdere.