Tempo di lettura: 7 minuti e 24 secondi
Non mi sono espresso sulla dolorosa vicenda della ristoratrice che, probabilmente colta con le mani nella marmellata per aver prodotto una recensione falsa e travolta dall’umiliazione, si è tolta la vita. Avrei voluto dire qualcosa, avrei voluto dire molto. Ma la verità è che non l’ho fatto perché ho paura.
Per esporsi contro un certo potere mediatico ci vuole coraggio perché significa, nel migliore dei casi, restare isolato. Ci sono Giganti Sacri che puoi scalfire ma non puoi far cadere, e non è solo una questione di follower. Certi giganti avranno sempre una fitta rete di protezione, una corte di vassalli e viceré pronti a difenderli e a lavorare nelle retrovie per distruggerti. Ma questa vicenda ha una connotazione di classe da cui non posso esimermi dal rispondere. Mi farò del male, forse.
Ma una volta su cento ci si riesce, ogni tanto Davide vince contro Golia.
Ho contato fino a dieci, forse questa volta ne vale la pena.
L’immobilità dello scontro permanente
Non so quanto sia stato giusto perpetuare così a lungo la sassaiola di tweet e articoli contro una donna che, se fosse confermata la versione più credibile, si è comportata tuttalpiù da furbetta. Una settimana credo sia troppo, è una questione di misura. Come di misura si dovrebbe parlare quando si parla di rapporti di forza: un personaggio noto come Selvaggia Lucarelli, forte di milioni di follower, può legittimamente parlare di una vicenda di interesse pubblico ma non può imporre, in modo unidirezionale, la narrazione ufficiale marchiando con lo stigma delle difficoltà psicologiche preesistenti la vittima di questa brutta storia con l’unico scopo di assolversi. Posto che debba farlo, ognuno la pensi come crede.
Ma non scriverò altro della vicenda, proverò non senza dubbi a parlare del suo meccanismo. E il meccanismo ha la forma di una strategia della tensione mediatica senza sosta in cui noi siamo solo carne da macello, in uno show dove le masse sono comparse politiche senza voce ma armate di like e condivisioni.
Il fine autocentrato di buona parte delle dispute pubbliche è quello di impegnare le nostre risorse in uno scontro permanente, in quelli che Slavoj Zizek chiama pseudo conflitti: lo scopo dello pseudo conflitto è quello di alimentare un dibattito secondario per evitare che esploda il conflitto reale. Una subdola deviazione da temi sistemici, ovvero i temi che rimettono in discussione le cause profonde del malessere sociale. Insomma, ho come l’impressione che siamo in qualche modo direzionati da esponenti delle élite mediatiche che cavalcano le vicende per alimentare l’engagement o l’hype intorno al proprio profilo Instagram, non per darci strumenti finalizzati a migliorare le nostre esistenze.
Lo so, un’argomentazione del genere può essere tacciata facilmente di benaltrismo, addurre a motivazioni più elevate è una tattica che facilmente si auto avvita: esiste sempre qualcosa di più importante di cui parlare e fare appello ad argomenti più aulici è esso stesso una strategia per non parlare di nient’altro. Ma forse c’è qualcosa di più: credo che l’abitudine alla superficialità quotidiana sia funzionale all’evitamento del profondo politico.
Come ricorda Mark Fisher, è come se la nostra esistenza politica si riduca all’alzarsi alla mattina e chiedersi per cosa ci indigneremo oggi?
Per questo voglio che sia chiaro, ciò che ho detto non significa in nessun modo pretendere che il dibattito mainstream si riduca a lezioni monografiche su Karl Marx, ma significa chiedersi se la polemica del giorno abbia una funzione di crescita collettiva o se sia il soddisfacimento della nostra dose giornaliera di rabbia immediata, ottenuta a prezzo di un’impotenza politica a lungo termine. La rabbia fine a se stessa, privata della sua dimensione trasformativa, infatti non è soltanto un sentimento impotente ma è anche controproducente, perché alimenta in primo luogo la resistenza al cambiamento che, come società, meriteremmo perché in ultima analisi ci logora, ci divide, ci fa star male. Senza mai prendere forma.
E perché, in secondo luogo, si tratta della negazione di un diritto che, in quanto individui in una democrazia, dovrebbe appartenerci: il diritto al tempo politico.
I parassiti del tempo politico
L’indignazione è valuta di scambio per quello che Jodi Dean chiama capitalismo comunicativo, ovvero un modello di business egoriferito degli influencer buoni che non si basa sul contenuto ma sulla pura circolazione di messaggi.
Impegnati nel cercare di far valere le nostre ragioni spesso non ci rendiamo conto che il campo di battaglia su cui stiamo combattendo, semplicemente, non ci è mai appartenuto davvero. Qualcuno lo ha scelto per noi.
La cascata di stimoli ai quali siamo sottoposti dai Giganti Sacri, quando scelgono per cosa ci scontreremo oggi, è l’occupazione quasi militare del tempo politico che ci sarebbe necessario per unirci e determinare, come soggetti collettivi, quale sia il terreno di scontro adatto al miglioramento della nostra società.
Insomma, il potere mediatico dei Giganti Sacri non è quello di esprimere un punto di vista interessante o fare inchieste illuminanti (che possiamo riconoscere come no, va a gusti), bensì quello di limitare lo spazio di confronto collettivo determinando, dall’alto verso il basso, i temi, i ritmi e i tempi del dibattito comune.
Tempo immolato all’unico vero interesse carrieristico di questi parassiti dell’attenzione e della rabbia: Sua Maestà l’Ego. In un gioco fintamente divisivo che, paradossalmente, finisce per diventare stampella ideologica dei reazionari.
Selvaggia Lucarelli, stampella dei reazionari
Non voglio accodarmi alla sequela di critiche che ha ricevuto la collega, io stesso faccio inchieste e non ricordo una sera precedente alla pubblicazione di una di esse in cui, con il mal di pancia, non abbia pensato: “E se questo si ammazza?”. Fa parte del gioco, purtroppo.
Però spesso mi sono chiesto: a chi giova davvero la voce autorevole di un personaggio pubblico perennemente in prima linea su argomenti sempre diversi e (solo apparentemente) divisivi?
Immaginiamo per un istante, e vi prometto non molto di più, di essere un esponente di destra: preferiremmo confrontarci con un esperto o un’attivista sulle contraddizioni del sistema in cui viviamo o ci sono easy target (obiettivi facili) verso i quali è preferibile puntare il dito per evitare confronti scomodi?
Selvaggia Lucarelli, per comodo o per strategia, rappresenta lo stereotipo della giornalista di sinistra che non piace all’elettore reazionario e ho il dubbio che il gossip dipinto di rosso che spesso propugna sia ciò che ad un certo establishment serva per scrivere il copione di una messinscena in cui tanto viene detto ma niente viene messo in discussione davvero.
Il politico o il giornale di destra sanno che attaccandola compatteranno il proprio elettorato nella gogna, evitando il confronto con le innumerevoli forme di lotta che rimetterebbero in discussione lo status quo che difendono: sanno che ciò che gli serve è un avversario che non piace e che incarna ciò che il loro pubblico di riferimento respinge in maniera aprioristica. In fondo teme, il reazionario, chi porta sulle spalle il fardello del progresso.
Preferisce, forse, chi rappresenta una sua vaga ed acida proiezione che non divide ma consolida le divisioni già in essere.
Va poi detto che gli attacchi degli hater che di conseguenza la collega riceve, ripubblicati sul suo profilo sovente, non vanno presi alla leggera soprattutto per le implicazioni che le cosiddette “shitstorm” possono avere sulla salute mentale. Ma, come Giorgio Gaber in Io se fossi Dio, proverei ad essere distaccato dalla questione senza farmi trascinare da nessun palpito del cuore e nell’arido e freddo deserto della razionalità che mi resterebbe a disposizione arriverei a pensare che l’ondata di commenti negativi che riceve alimenti questo gioco, in quello che Fisher definisce succo libidico del capitalismo comunicativo necessario per mantenere il coinvolgimento del pubblico nello scontro permanente. Insomma, l’hater che piaccia o meno oramai fa parte del gioco e la sua scomparsa inevitabilmente depotenzierebbe lo show.
Non è un complotto, è un gioco a regole implicite dove vincono le componenti attive, i Giganti Sacri tanto reazionari quanto progressisti, dove questi ultimi finiscono per impersonificare una stampella inconsapevole dei primi, castrando il conflitto profondo a discapito di quello superficiale.
Ad ogni parte serve un Gigante Sacro da attaccare, da sinistra a destra (Salvini, ne è un esempio) e da destra a sinistra, per compattare le masse in fazioni facilmente assemblabili e, soprattutto, per evitare che i bisogni delle masse marginalizzati diventino argomenti centrali.
Alle masse, antitesi mediatica e di classe delle élite culturali, non resta che il sacro potere della passiva partecipazione sugli spalti.
Panem et circenses, solo che è duepuntozero.
Desacralizzare i Giganti Sacri
So bene che probabilmente ciò che ho scritto attiverà la macchina della reazione a cui altri sono stati sottoposti. Né vita privata né vita pubblica sono al riparo, i Giganti Sacri o le loro corti di fedelissimi possono agire oggi o in futuro: la fionda contro Golia, sapendo che non sempre Davide vince. Ho pensato spesso in questi giorni se inviare questa mail, so cosa rischio, ma non farlo avrebbe significato legittimare l’imbavagliamento di un giornalista. Non avrei potuto più guardarmi allo specchio, ho da perdere parecchio ma anche parecchio per difendermi e nessuna forma di ripicca, piccola o grande che sia, passerà nell’ombra se messa in atto.
Son qui, pronto al peggio e pronto a reagire.
Per continuare però devo provare a portare i Giganti Sacri al mio livello, sul Pianeta Terra.
Sacro viene dal latino sacer, tra le probabili radici a cui afferisce c’è quella di saqru, elevato. Sacralizziamo le opere, i fatti, le persone. Sacralizzare significa rendere qualcosa così elevato da renderlo intoccabile. E così quando la si mette in discussione per le cose giuste si ha la sensazione o il timore di star compiendo un’azione sbagliata.
Se Selvaggia Lucarelli sia una buona o una cattiva giornalista non mi interessa, scrive cose e ognuno può giudicare. Io non credo che un episodio racconti di una carriera e indubbiamente ci sono meriti che le appartengono che non possono esserle tolti.
Quello che dovremmo chiederci è però se quel che ogni giorno ci vende è il tipo di rabbia di cui abbiamo bisogno. Se questo rumore incessante al quale siamo sottoposti (per l’amor del Cielo, non solo da lei) sia quel che ci edifica come individui o come collettività. E, soprattutto, se lo schierarsi negli pseudo conflitti che sovente genera sia un’azione automatica che compiamo per adesione al Gigante Sacro o se davvero ci interessa combattere in quel campo di battaglia perché pensiamo possa portarci da qualche parte.
Porsi quelle domande significa entrare nell’argomento e dubitare sempre della penna. Soprattutto della mia, che potrebbe aver scritto fin qui una riflessione totalmente sbagliata: non pretendo di avere ragione, mi sto provando a rispondere alle mie stesse domande.
Significa, in un’ultima analisi, provare ad evadere con l’indifferenza dagli unici strumenti che ci sono concessi, come massa, per partecipare a questo conflitto vacuo a cui siamo sottoposti dai Giganti Sacri: i like e commenti.
Ma, finché solo quelli abbiamo, significa porsi in un atteggiamento di fredda e attenta valutazione sulla qualità dell’indignazione a cui ci chiedono di aderire.
Significa provare a pensare ogni volta prima di schierarsi, provare a fermarsi e pensare.
Significa, forse, riprendersi il tempo e contare fino a dieci. E solo poi agire.
Un abbraccio, Alessandro
Alcune note
Ho sempre cercato di evitare le polemiche del giorno ma mi rendo conto che, per necessità, da due settimane ne sono immerso. Ho sempre cercato di rendere più politico possibile il fenomeno evadendo dalla superficialità.
Potrei non esserci riuscito, continuerò nel mio lavoro di sostegno alle lotte e di analisi dei meccanismi di prevaricazione di classe, sperando di uscire presto dal pantano.Grazie ai miei 1687 sostenitori e sostenitrici riesco ad integrare il mio reddito e dedicare tempo e risorse alla mia divulgazione, che è sempre gratuita.
È una forma di sostegno dal basso che mi permette di essere massimamente inclusivo. Puoi saltare questo messaggio e continuare a ricevere tutti i miei contenuti gratuitamente. Se pensi però che ciò che faccio sia in qualche modo utile puoi offrirmi un caffè virtuale e unirti a coloro che, senza nulla in cambio, hanno deciso di contribuire.
Qui il link
OFFRIMI UN CAFFE’
Come già detto potrei avere commesso qualche errore. Ma sono qui anche per sbagliare e crescere con i vostri feedback.
Questa è, nei fatti, crescita collettiva. E con voi non ho mai smesso di crescere.
Alla prossima.
A.
Analisi puntuale e, secondo me, anche ottimo spunto di riflessione / crescita, se può tranquillizzarti. Non ho seguito la polemica sulla ristoratrice, ho appreso quanto era successo solo dopo il suo suicidio, e in virtù di quest'ultimo mi è sembrata davvero un'occasione persa per riflettere su come usiamo e cosa facciamo del nostro potere social. Ma dato che non ho seguito la vicenda, non ho capito a cosa ti riferisci quando parli dell'imbavagliamento di unx giornalista.
Non capisco perché tutta questa paura. Hai espresso la tua opinione in modo estremamente analitico e pacato. Ci sono moltissime persone che si sono esposte con ben più veemenza di te, e con una potenza mediatica molto inferiore alla tua (perché - sono sicura che lo sai - una potenza mediatica ce l’hai anche tu).