Ava era una farfalla. Ma non perché volava, leggera, di fiore in fiore mostrando al mondo i suoi bellissimi colori. Ava era una bambina di nove anni che soffriva di una malattia, rara, l’Epidermolysis bullosa, una mutazione genetica che rende la pelle sottile e fragile, appunto come le ali di una delle creature più affascinanti del nostro Pianeta. I bambini farfalla, a dispetto del nome, non godono di una vita facile: il dolore della malattia, se non curata, è indicibile. Qualcuno l’ha paragonata all’acqua bollente sulla carne viva. In un flusso continuo, goccia dopo goccia. Senza mai fermarsi, fino a farti impazzire.
Ava avrebbe dovuto essere custodita, e invece è stata spazzata via da una guerra che non la riguardava. A Giugno del 2019 è stata liberata per sempre da quel dolore ed è morta. Le cure necessarie per poterle concedere un’esistenza migliore c’erano, ma non potevano in nessun modo entrare nel suo Paese. Ava ha pagato il caro prezzo di essere nata nella culla sbagliata, nella parte sbagliata del mondo, nel momento sbagliato. Ava viveva in Iran e le bende che le avrebbero potuto salvare la vita si sono impigliate nei complessi rapporti diplomatici del suo Paese con l’Occidente.
Le sanzioni come violenza di classe
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Esiste una forma di guerra ai popoli di cui si parla pochissimo, benché spesso faccia più vittime delle bombe: le sanzioni economiche. Una sanzione economica è una misura coercitiva imposta da uno o più Stati che consiste tipicamente in restrizioni commerciali, finanziarie o tecnologiche come il blocco di esportazioni e importazioni, il congelamento di beni o conti bancari e il divieto di accesso al sistema finanziario internazionale.
Dietro questo termine, freddo e lontano, si nasconde però il crudele sadismo a cui possiamo arrivare come esseri umani. Perché, va detto, le sanzioni si legittimano su un principio che, nei fatti, non funziona quasi mai. Ovvero l’idea che portando allo sfinimento la popolazione di uno Stato nemico, questa si ribellerà ai governanti in quanto incapaci di gestire la carenza di beni e servizi essenziali.
Ci hanno provato per decenni - tra gli altri - con l’ex Yugoslavia, con Cuba, con l’Iran e con il Venezuela (insomma, con chiunque non si allineasse ai diktat statunitensi) e l’unico effetto che hanno sortito, anche questo va detto - è stata una immensa e silenziosa sofferenza di classe.
Perché le sanzioni non colpiscono mai le élite degli Stati canaglia e le loro famiglie. Le sanzioni internazionali mirano a rendere scarsi beni essenziali. Scarsi, appunto, quindi inaccessibili alla massa, rendendo la vita di milioni di persone praticamente impossibile.
L’Iran è soggetto a sanzioni Usa dal 1984 e la storia di Ava è solo una tra le tante. Solo negli ultimi cinque anni circa 30 persone - perlopiù bambini come lei - sono morte perché l’azienda svedese che avrebbe potuto fornire i bendaggi necessari per salvare loro la vita, Mölnlycke, ha trovato difficoltà nel gestire i pagamenti (le misure colpiscono soprattutto i circuiti finanziari) e perché temeva sanzioni secondarie, ovvero forme poco chiare di ritorsione che i governi possono attuare anche in caso di commercio formalmente legittimo, come quello dei medicinali. Insomma, quando un Paese è oggetto di embargo è meglio starne alla larga del tutto, secondo un principio di precauzione totalizzante.
Le conseguenze, anche quelle più estreme, del resto non fanno rumore.
Di sanzioni però si muore, nel silenzio del diritto internazionale.
I numeri
Non sono solo i bambini farfalla ad essere colpiti. Nel solo settore medico-ospedaliero secondo uno studio del 2013 sono sei milioni gli iraniani affetti in qualche misura dalle sanzioni. Tra cui oltre 40mila pazienti affetti da emofilia, 73mila da Hiv/Aids e circa centomila affetti da malattie del sangue o oncologiche. E con l’amministrazione Trump la drammatica quotidianità di queste persone è peggiorata.
Neanche Covid 19 era riuscito ad ammorbidire i promotori della punizione collettiva, Usa e Ue in prima fila, causando secondo Human Right Watch un rallentamento nelle misure di contenimento e ostacolando, in seguito, il sistema sanitario nel far entrare nel Paese circa due milioni di dosi di vaccini.
E anche se si esce dalla materia sanitaria i numeri restano impietosi: secondo Alena Douhan, relatrice speciale delle Nazioni Unite, le misure coercitive unilaterali imposte all'Iran non colpiscono un'entità astratta chiamata "regime", ma si abbattono direttamente sulle fasce più vulnerabili della popolazione. Tra le categorie più esposte, Douhan cita “disabili, rifugiati afghani (presenti in gran numero in Iran dopo la guerra) , famiglie guidate da donne sole”, evidenziando come proprio chi ha meno risorse per resistere sia il primo a pagare il prezzo delle scelte geopolitiche. Le sue parole sono nette: le sanzioni hanno notevolmente aggravato la situazione umanitaria in Iran. Non si tratta di effetti collaterali, ma di un disegno preciso che utilizza la sofferenza dei civili come strumento di pressione. Un assedio economico che, dietro la maschera della diplomazia, produce fame, isolamento tecnologico e miseria.
Tra il 27% e il 50% degli iraniani vive oggi al di sotto della soglia di povertà, spesso in condizioni di malnutrizione cronica. È una povertà che ha cause complesse — corruzione interna, cattiva gestione economica, repressione politica — ma che trova nelle sanzioni internazionali un moltiplicatore spietato. Le sanzioni sono uno strumento di guerra travestito da pressione diplomatica, un assedio selettivo e senza vie di fuga che dice di voler colpire il potere, ma finisce per punire chi di potere non ne ha mai avuto.
L’opposizione frammentata
Questo è un passaggio che spiega molte cose. A partire da una delle fratture più profonde e meno raccontate: quella tra gli iraniani in patria e gli attivisti dissidenti all’estero. La diffidenza non è solo politica, è esistenziale. Lo spiega bene Silvia Pegah su Ottolina TV: per molti iraniani, vedere connazionali che vivono in Occidente sfilare con slogan condivisibili come “Donna, Vita, Libertà” può generare fastidio, sospetto, addirittura rabbia. Non perché quelle parole siano sbagliate o poco condivise, ma perché spesso vengono urlate nella direzione sbagliata: verso gli stessi governi stranieri che affamano un popolo intero. Una parte della dissidenza chiede infatti all’Occidente maggior pressione, più isolamento, sanzioni più dure. E qui si produce la frattura: perché per chi vive in Iran, quelle sanzioni non sono un concetto astratto né uno strumento di pressione sul regime. Sono farmaci che non arrivano. Sono bambini che rovistano tra i rifiuti. Sono donne sole che non riescono a sfamare i propri figli, figli che guardano e non capiscono. Sono malati lasciati morire, impauriti. La punizione collettiva che l’Occidente infligge all’Iran — mentre Israele, suo avamposto, intensifica gli attacchi — può produrre un effetto paradossale: finisce per compattare il popolo attorno allo stesso regime che molti vorrebbero vedere crollare. Perché in assenza di un’alternativa concreta, chi bombarda, affama o umilia dall’esterno non indebolisce il potere, lo legittima. La guerra, anche economica, tende a semplificare il conflitto, a ridurlo a un “noi contro loro” che, purtroppo, spesso salva proprio chi dovrebbe cadere.
Insomma, la verità è che spesso non lo abbiamo capito neanche noi. Che senza pane, senza cure, senza energia, senza prospettive, nessuno slogan — per quanto giusto, per quanto poetico, per quanto urlato con convinzione — avrebbe mai potuto salvare l’Iran. Ci siamo raccontati che bastava rivendicare i diritti, e lo abbiamo fatto dal nostro salotto, connessi, protetti, al sicuro. Siamo stati arroganti, ciechi, forse persino un po’ troppo innamorati della nostra coerenza di superficie.
Ci siamo illusi che i diritti che offrivamo con la mano destra potessero bastare, mentre con la sinistra sostenevamo governi, imponevamo sanzioni, strangolavamo economie, costringevamo interi popoli a vivere con la paura di non vivere. Abbiamo finto di non vedere che la libertà, senza condizioni materiali dignitose, è una promessa vuota. Buona per i social, non per i popoli. Popoli che poi, se non obbedivano, abbiamo chiamato incivili.
Ad Ava
Lo diceva Lenin, più di un secolo fa: le guerre sono guerre tra padroni, ma a morire sono sempre i figli dei disgraziati. È una verità tanto semplice quanto insopportabile, ed è una delle poche che regge ancora, guerra dopo guerra. Ma c’è qualcosa che la storia ci ha insegnato, e che troppo spesso dimentichiamo: le guerre hanno bisogno di narrazioni, senza narrazioni credibili perdono di legittimità. Durante la Prima Guerra Mondiale, grazie all’instancabile lavoro di socialisti, comunisti e internazionalisti, si cominciò a raccontare un’altra storia: non quella degli eroi in trincea, ma quella dei poveri mandati a morire contro altri poveri, sotto bandiere diverse ma con le stesse scarpe infangate. La contro-narrazione, in alcune zone del fronte, fu così potente da incrinare il mito stesso del nemico. Nelle lettere, nei diari, nei racconti tramandati si trovano episodi di fraternizzazione, gesti di umanità tra soldati che avevano capito di essere solo pedine sullo stesso scacchiere. Nei rapporti dei superiori, invece, cresceva la preoccupazione per il declino dei miti fondativi del conflitto: la deumanizzazione dell’Altro in primis.
Lenin stesso lo scrisse con chiarezza: una volta riconosciuta la natura di classe della guerra, nessuna uniforme può bastare a neutralizzare l’altro come essere umano.
Mi piace pensare che, oggi come allora, siamo chiamati a questo: a rompere la narrazione ufficiale, a scavare dietro le bandiere, a domandare chi ci guadagna, chi ci perde, chi viene sacrificato. Non possiamo più accontentarci di farci dire dal centro emittente mainstream chi è il nemico. Non possiamo più accettare che sia un passaporto a decidere chi merita di vivere e chi no.
Ava non era un nemico. Ava non era una minaccia. Ava era una bambina. Era una farfalla. Era una delle migliaia di vite innocenti travolte da una guerra che le ha rubato il nome, il corpo, il futuro. E se oggi vogliamo davvero opporci a questa guerra, a tutte le guerre, dobbiamo cominciare da qui: restituire ad Ava la sua umanità, e con lei a tutti coloro che ci viene chiesto di non vedere.
Perché, spesso, le parole che ci danno in pasto sono avvelenate di violenza.
Violenza di classe, la più invisibile di tutte.
Alcune news
Lo so, sto scrivendo più di quanto avessi promesso. E lo so, questo tema — l’Iran, la guerra, il dolore — tocca solo di striscio la questione di classe, che resta il centro della mia analisi e del mio impegno. Ma l’Iran è il mio Paese. E scrivere, adesso, è l’unica cosa che riesco a fare per tenere insieme la rabbia e la disperazione. Oggi ho sentito mio padre. Chi è rimasto della mia famiglia a Teheran non sa dove andare, dove scappare, dove ripararsi. Non esiste un posto sicuro. È terribile. È paralizzante. E forse non posso fare niente per proteggerli davvero. Ma posso fare una cosa: umanizzarli. Farli esistere oltre i confini della cronaca, delle strategie, delle semplificazioni. Dire che le persone non perdono valore per colpa dei governi sotto cui sono costrette a vivere. Che non esiste alcun merito nell’essere nati nel posto giusto, e nessuna colpa nell’essere finiti nel posto sbagliato della mappa. Perché se non restituiamo voce e volto a chi soffre, tutto questo dolore resterà solo rumore. E invece dev’essere ascoltato.
Se però questi argomenti non interessano lo capisco, non mi offendo se allontanerò qualcuno. Ma finché me la sento pubblicherò di più qui.Ringrazio di cuore le 2512 persone che hanno scelto di sostenermi — con un caffè, continuo o occasionale — e che rendono possibile questo lavoro. Ho creato questa newsletter con la promessa di mantenerla sempre gratuita.
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Grazie di tutto, alla prossima
Alessandro
🫂
Grazie per aver scritto questo post. Di questi temi si parla sempre troppo poco e troppo tardi.
Le sanzioni vengono spesso raccontate come strumenti diplomatici, quasi astratti, ma i loro effetti sono brutali e concreti. Non colpiscono mai chi comanda, ma chi non ha voce, chi è già in una condizione di estrema vulnerabilità come: malati, bambini, disabili, donne sole, rifugiati e chi non ha accesso a cure, risorse, o alternative.
Nel lessico dei governi occidentali, si trasformano in una forma “accettabile” di violenza. Nessun esercito, nessun bombardamento. Solo ospedali senza forniture, farmacie senza farmaci, vite spezzate nel silenzio.E intanto le stesse istituzioni che proclamano la sacralità dei diritti umani continuano ad approvare sanzioni che colpiscono esattamente quei diritti che dovrebbero difendere: la salute, la dignità e la sopravvivenza.
È una moralità a geometria variabile (per dirla in termini ONU), che distingue tra vittime degne di attenzione e altre da archiviare definendolo “inevitabile”. Il risultato è una punizione collettiva che non ha nulla di etico e che viene accettata con indifferenza solo perché accade altrove, lontano, a persone che non ci somigliano abbastanza.
Di fronte a questo, restituire umanità con nomi e storie, diventa di fondamentale importanza.