Una corda al collo
Come un messaggio ha cambiato la mia giornata
Il lavoro uccide, in più modi.
Venerdì ho chiesto su Instagram ai miei follower se negli ultimi due anni avessero mai pensato di licenziarsi e il risultato è stato disarmante: l’85% dei rispondenti ha affermato di sì. E non solo: per mezzo di uno spazio box ho chiesto i motivi di tale desiderio. Ho ricevuto oltre duemila risposte tra cui una che mi ha molto colpito: quella della corda al collo. Ma ci arrivo dopo.
Al tempo dei miei nonni, e nei primi anni di lavoro dei miei genitori, le persone raramente cambiavano mestiere e l’ingresso in un ufficio o un’officina il più delle volte significava l’inizio di un’avventura che avrebbe portato il lavoratore o la lavoratrice fino alla pensione. Rileggo le risposte ricevute questo weekend: ambiente tossico, micromanaging, gerarchie patologiche, competizione tra colleghi, alienazione, poca flessibilità. Ed è solo la punta dell’iceberg.
Ho fatto un post sabato mattina (lo trovate su IG), sugli innumerevoli modi in cui può uccidere un lavoro d’ufficio. Stesso copione: le mie caselle mail e Instagram sono intasate di testimonianze, sfoghi, domande.
Io mi ero illuso di poter provare a spiegare il fenomeno, esco da questo weekend molto più confuso di prima.
Cosa si è rotto, nel frattempo? Perché ci sentiamo annullati dal lavoro? Cosa succederà tra uno, dieci o cento anni? Saremo in grado di reagire o i nostri corpi e le nostre menti continueranno ad incassare?
La corda. “Mi sono licenziata a marzo 2020, un paio di giorni prima che iniziasse il lockdown. Il 9 febbraio avevo preso una corda per impiccarmi. Il giorno dopo ho dato le dimissioni e ho ricominciato a respirare”. Questa è la testimonianza (per fortuna finita bene) che mi ha colpito di più.
Una corda, per qualcuno la via di fuga si trova nella ferramenta sotto casa. Bastano pochi euro, pare essere l’unica via di fuga da tutto questo casino. E un parallelismo, forse inconscio, che mi ha fatto riflettere amaramente: per quella ragazza il lavoro, come quella corda, toglie il respiro.
E quella scelta, per fortuna scongiurata, sarebbe stata a tutti gli effetti solo un modo più veloce di soffocare.
Leggendo quelle parole, confesso, ho dovuto riprendere fiato anche io.
Bullshit Jobs - David Graeber (Edizioni Garzanti)
Quando conosciamo una persona una delle prime domande che gli/le poniamo suona, a grandi linee, più o meno così: “Che fai nella vita?”. Ho sempre pensato che questa fosse un’espressione emblematica del nostro sistema: abbiamo introiettato in noi il mito lavorista così a fondo che di fronte alle infinite opzioni che abbiamo per conoscere il prossimo scegliamo la più scontata, dopo il nome di battesimo, che è appunto l’occupazione. Un modo comodo per categorizzare chi abbiamo di fronte.
Proviamo, per gioco, a porre alla nostra nuova conoscenza immaginaria una domanda diversa: perché fai quello che fai?
Mettiamo da parte l’affitto o le bollette. Qual è il senso di ciò che facciamo? Crediamo che il nostro lavoro edifichi noi stessi e la società nel modo in cui vorremmo?
O forse sappiamo, in cuor nostro, di seguire obiettivi e fini molto lontani da quello che siamo intimamente?
Nel 2013 l’antropologo e scrittore David Graeber ha posto questi semplici interrogativi in un articolo online, in poche ore diventato celebre e virale. Quel che è successo dopo è scritto, in un testo davvero eccezionale, in Bullshit Jobs. L’autore postula l'esistenza di lavori privi di significato e ne analizza, con una scrittura autorevole e accattivante, il danno sociale, sostenendo che più della metà del lavoro sociale sia inutile e diventi psicologicamente distruttivo se abbinato a un'etica del lavoro che associa il lavoro all'autostima.
Libro illuminante, tagliente, di facile accesso e a tratti dissacrante. Leggetelo tutto se lo comprate, perché tante delle stranezze nelle prime pagine acquisiscono struttura con il suo completamento.
Uno dei miei libri preferiti, un bel regalo di Natale per il collega o la collega in difficoltà.
Un viaggio che ha il suo epilogo in una proposta politica necessaria e oggi più che mai attuale: un reddito universale per tutt*. Per liberare le persone dal giogo del lavoro e far progredire l’Umanità fuori dal solco tracciato dalla logica del profitto.
Utopia? No, è solo una strada differente.
La novità
1) Sento il bisogno di trasformare il mio pubblico in persone. Mi spiego, io so chi sono e probabilmente anche voi avete una vaga idea di chi io sia ma sento di volermi avvicinare di più a voi. Scrivo e parlo il più delle volte in modo unidirezionale e nonostante io abbia avuto molti confronti con il mio pubblico mi piacerebbe fare “un passo di lato”, ascoltare e capirvi in quanto persone.
Confrontandomi con qualche amic* ho pensato di organizzare dei tavoli di dibattito, online o dal vivo, dove potrei confrontarmi con qualcuno tra voi su temi scelti in precedenza. Dei simposi, uno al mese. Un bicchiere di vino e ci si ascolta.
Cosa ne pensate? Per ora è solo un’idea, non so se e come potrei realizzarla, però mi piacerebbe sentire il vostro parere.
Potete farlo a questo link, ho lasciato uno spazio bianco per raccogliere gli spunti. Ripeto, è un’idea, ho le idee confuse ma un obiettivo chiaro: andare oltre ad Instagram e unire le persone, non per forza intorno a me.
Qui un form di raccolta opinioni, se avete due minuti mi farebbe piacere leggervi.
DIMMI LA TUA QUI
2) Tanti auguri a noi. Domenica 15 novembre 2020 ho pubblicato la mia prima slide su Instagram. Domani il mio progetto compie un anno. Se sono qui a scrivere questa newsletter è grazie a tutt* coloro che in qualsiasi modo mi hanno sostenuto. Chi mi scrive, chi mi mette un like, chi condivide i miei post. Ognuno di voi mi ha dato tantissimo e per questo vi ringrazio. Questo progetto, nato totalmente per caso, è anche e soprattutto di chi l’ha sostenuto. Tuo, o meglio nostro, quindi.
Come sai ho scelto sin da principio di non monetizzarlo: non accetto pubblicità, proposte commerciali e gettoni da aziende per la mia immagine. Una scelta che ho potuto fare grazie a tutt* coloro che sostengono il mio progetto 100% grassroots journalism attraverso i caffè virtuali. Davvero, grazie di cuore.
Se ti va puoi offrirmi un caffè sul mio account buy me a coffe, un solo caffè per me fa davvero la differenza. Solo se puoi permettertelo qui il link, spero di poterlo bere dal vivo presto con ognuno di voi.
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3) Grazie davvero, per tutto.
Buonanotte
Alessandro