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Al numero 12 di Merrion Square, a Dublino, c’è una targa dedicata a Violet Gibson, una donna morta nel 1956 nell’istituto psichiatrico che l’aveva forzatamente accolta circa trent’anni prima quando, a seguito di un processo molto discusso dell’epoca, era stata trasferita dal nostro Paese al Regno Unito con le manette ai polsi e ai piedi.
Mercoledì 7 aprile 1926 aveva infatti sparato al volto - mancandolo di poco - del Duce d’Italia, Benito Mussolini. Ma, a differenza di tanti altri nemici del fascismo, lei non era diventata un’eroina nel Dopoguerra.
Non c’erano state celebrazioni, né memorie gloriose. Violet non aveva trovato un posto nello spirito antifascista che venne dopo la Liberazione. Morì dimenticata, relegata nella discarica sociale di un manicomio giudiziario, etichettata come pazza per sempre. Salvo poi, paradossalmente, diventare un’icona per coloro che sarebbero arrivati dopo e avrebbero potuto conoscerla solo nelle narrazioni della Storia. Quella targa in suo onore fu eretta solo nel 2022.
C'è poi un ragazzo, si chiama Luigi Mangione. Il 4 dicembre del 2024 prende una pistola, spara, e uccide una persona. Lo fa deliberatamente. Addirittura lo rivendica in un manifesto. È un assassino e per questo probabilmente non uscirà mai di galera.
Ma sui social raccoglie un evidente consenso.
Dall’altra parte dell’arma c’è un CEO che non ha mai impugnato una pistola, non ha mai sparato un colpo, ma attraverso il suo ruolo nella società assicurativa in cui lavora costruisce o sostiene un sistema che, oggettivamente, miete vittime. Le sue decisioni portano morte in modo sistemico, ma diluito nel tempo, tra scelte di bilancio e grafici Excel non si sporca mai le mani.
Un paragone azzardato?
Brian Thomson, il CEO ucciso, non è Benito Mussolini. Me lo diranno in molti. Ed è vero.
Ma c’è una cosa che bisogna ricordare: i “cattivi” e i “buoni” della Storia non nascono tali. Lo diventano quando il mondo si svuota dei loro contemporanei, quando non c’è più nessuno a difenderli o a odiarli con la rabbia del presente.
Mussolini, nel 1926, era sicuramente un personaggio discusso ma non era ancora l’incarnazione del male politico che oggi riconosciamo. Innanzitutto perché all’epoca non aveva ancora raggiunto l’apice del dolore e della distruzione che avrebbe portato. E poi perché noi, allora come oggi, giudichiamo con le lenti del nostro tempo, lenti che cambiano continuamente. Ogni epoca ha i suoi demoni e i suoi eroi, e quelli delle generazioni precedenti si dissolvono in un vago ricordo o, per molti, spariscono del tutto. I buoni e i cattivi del 1926 erano dunque altri.
Prendete Josef Radetzky. A quanti di voi, oggi, quel nome dirà qualcosa? Probabilmente a pochi. Radetzky, il generale austriaco che per buona parte dell’Ottocento e dei primi del Novecento è stato l’incubo collettivo di generazioni di italiani, all’epoca incarnava il "male storico". Era lui il riferimento negativo, la misura del “peggio”. E non è difficile immaginare che, negli anni Venti, nelle ore successive all’attentato al Duce, qualcuno abbia esclamato indignato: “Ok, Mussolini non è una figura limpidissima, ma non è certo paragonabile in cattiveria a Josef Radetzky!”
Milioni di italiani, in quel momento storico, vedevano Mussolini come una figura straordinaria, certo, ma pur sempre immersa nella normalità dell’epoca. Tanto normale da rendere l’attentato di Violet Gibson non un gesto di resistenza, ma una fonte di sdegno e indignazione. Al contrario, l’attentato rafforzò il consenso popolare intorno al Partito Fascista, che ne uscì incredibilmente legittimato. Ed è qui che si nasconde il paradosso. Mussolini era straordinario, sì, ma solo nella misura in cui il sistema di valori del suo tempo glielo permetteva. Lo ha reso possibile. Lo ha reso legittimo. Anzi, lo ha reso normalità. E quella normalità, costruita pezzo per pezzo, lo ha trasformato in qualcosa di apparentemente inevitabile, quasi naturale. E l'inevitabile a volte può essere la bugia più grande che la Storia possa raccontarci.
Come quella per cui i CEO meritino tutto il potere che detengono.
Buoni o cattivi?
Oggi abbiamo tanti modi di vedere Brian Thompson. Per alcuni è l'onesto lavoratore, un uomo che, con il suo impegno e sacrificio, provvedeva al bene della sua famiglia e aveva raggiunto una carriera lodevole. Per altri è qualcosa di molto diverso: un CEO i cui risultati si reggevano sul rifiuto di indennizzi assicurativi, e quindi, indirettamente, sulla sofferenza di migliaia di famiglie americane. Due immagini, due narrazioni che coesistono nello stesso tempo, nello stesso spazio. E forse nelle stesse persone, combattute tra due spinte interne ed esterne, sui social o di fronte alla propria coscienza: condanna e mitizzazione?
Sarà la Storia, forse, a decidere chi saranno davvero Luigi Mangione o Brian Thompson: chi il “buono” e chi il “cattivo”. Ma, purtroppo, quella risposta arriverà troppo tardi per noi. È il lusso del futuro: guardare al passato con occhi distaccati, rimettere a posto i pezzi, tracciare linee etiche più chiare tra giusto e sbagliato.
E, soprattutto, non è detto che la sentenza storica sia la migliore.
Quel che possiamo fare, per gioco, è provare l’impossibile impresa di uscire con Luigi Mangione e Brian Thompson dal pantano del presente.
Il pantano della contemporaneità
Immaginiamo di saltare avanti nel tempo. Un salto lungo, diciamo fino al 2100 – sempre che ci sarà ancora qualcuno a scrivere di Storia. Proviamo a guardare il nostro presente con gli occhi di chi verrà dopo, di chi beatamente distaccato guarderà nelle pieghe del sistema in cui viviamo oggi e in cui siamo immersi.
Le multinazionali, espressioni di potere economico e politico del nostro tempo, hanno un potere trasformativo immenso sulle nostre esistenze e sulle vite di chi verrà dopo di noi.
Solo la crisi climatica, causata da un modello basato sull’ossessione per l’estrazione di profitto da qualsiasi cosa, dal 2000 a oggi ha causato - secondo alcune stime - oltre 5 milioni di morti.
Certo, non è una guerra o un sistema di oppressione costruito con il filo spinato dei campi di concentramento, ma è anche abbastanza ipocrita elencare i benefici del capitalismo contemporaneo quando non ci siamo noi, per puro caso geopolitico, nella conta delle vittime.
A questo numero, che pare crescerà esponenzialmente, vanno aggiunte le vittime dirette e indirette del lavoro insicuro o precario, dello sfruttamento, di un sistema che logora lentamente i suoi ingranaggi umani.
Chi ci osserverà domani vedrà che sì, ci sono persone che sopravvivono ma che portano sulle spalle traumi fisici e psichici i cui danni saranno probabilmente difficili da quantificare.
In questo gioco assurdo del viaggiatore temporale dovremmo porci dunque una domanda: cosa diranno i posteri di noi?
Qualcuno chiamerà i Ceo – quelli che oggi rappresentano la classe dirigente del nostro tempo– i “buoni”? O forse, in quella Storia futura, troveranno nel nome di Luigi Mangione un agente storico - solo e disperato - al pari di di Violet Gibson? Il ruolo dei Ceo verrà riscritto - e depotenziato - al pari di quello dei nobili medievali, dei podestà fascisti o degli aruspici etruschi?
Non è facile immaginarlo, lo so. Siamo troppo immersi nel nostro presente per fare passi indietro o in avanti. Ed è stato un filo presuntuoso pensare di poter condurre individualmente questo gioco.
Per, costretti a rimetterci nel pantano del presente e potendo usare l’unico prisma interpretativo che abbiamo proviamo a rispondere, se possibile, alla domanda: assassino o eroe?
Dilemma filosofico
Ci sono due modi di giudicare quanto accaduto. Da una parte c’è la fermezza morale di chi è convinto che esistano principi assoluti, validi sempre e comunque. Uccidere, per esempio, è sempre sbagliato.
Dall’altra parte c’è chi oppone il relativismo etico: il giudizio dipende dal contesto. Uccidere è sbagliato, certo, ma se condanniamo per principio chi toglie la vita ad un altro uomo dovremmo rinnegare fenomeni storici quali la Resistenza o i movimenti di liberazione coloniale.
C’è poi un tema legato alle responsabilità. Da una parte è evidente che il Ceo, con il suo ruolo sociale e storico, si è macchiato di sangue ma le sue morti non le vediamo, non sono dirette. Non ha premuto un grilletto, non ha tolto la vita a qualcuno con un atto netto, tangibile e forse non avrebbe mai avuto il coraggio di intraprendere una. Le sue azioni passano attraverso l’adesione ad un sistema. Un sistema in cui è immerso e che lo giustifica, lo protegge, lo rende (ad oggi) “normale”. E allora qualcuno si può essere chiesto: chi è moralmente più colpevole? Il ragazzo che ha ucciso una volta, in modo diretto, visibile? O l’uomo che, dietro la macchina del sistema, ha causato la morte innegabile di tante persone, senza mai sporcarsi le mani?
Forse il problema è proprio questo: il sistema. Quello che rende invisibili certi crimini, a volte anche a chi li commette. Quello che delega la violenza ad altri e altrove, che trasforma la violenza in profitto e il profitto in normalità. Ma quanto siamo disposti a guardarlo in faccia, questo sistema, prima di accorgerci che è una parte di noi? Non avremo forse, al pari dei contemporanei di Benito Mussolini, un certo livello di responsabilità se mai i posteri, in un mondo in fiamme e senza più risorse, riconosceranno nei dirigenti delle multinazionali “la misura del peggio” a cui non ci siamo opposti in tempo?
Giustizia da sé
Quel che è certo è che il gesto di Luigi Mangione, al pari di quello di Violet Gibson, per me non è propriamente un atto politico. Questo non significa che manchi di significato politico, né che non sia espressione di un’ingiustizia o di una rabbia che può essere letta politicamente. Ma c’è una differenza cruciale: un atto politico è il risultato di una scelta collettiva, deliberata. Prendiamo la Resistenza italiana dopo il 1943: imbracciare un fucile, organizzare un movimento, è una decisione che ha coinvolto tanti individui ma in una misura condivisa, radicata in una dimensione collettiva. Insomma, qualcuno ad un certo punto si è confrontato con l’Altro per decidere di farlo.
Luigi Mangione, invece, ha agito su un piano puramente individuale. Questo non rende il suo gesto né una follia irrazionale né, al di là del meme, un atto eroico dal punto di vista politico. Forse, quello che ha fatto Mangione è qualcosa di più semplice, quasi inevitabile: in un sistema che si regge sulla sopraffazione di pochi su molti, è normale che, superato un certo limite di sopportazione, individui o gruppi possano decidere di agire con violenza.
Ecco perché sarebbe un errore interpretare il gesto di Mangione come un atto politico in senso stretto, o come quello di uno “squilibrato”. Così come sarebbe un errore ridurlo al solito schema giusto/sbagliato. Forse, l’unica chiave per discuterne è quella dell’opportunità. Se guardiamo alla Storia, ci sono casi in cui la violenza individuale ha portato a reazioni controproducenti: pensiamo a Violet Gibson, il cui attentato a Mussolini finì per rafforzare il consenso fascista, portando ad un inasprimento delle leggi liberticide. Ma è anche vero che la minaccia della violenza collettiva, specialmente quella dei “fianchi radicali”, ha spesso giocato un ruolo fondamentale nei processi di cambiamento.
I fianchi radicali
Possiamo raccontarcela, illudendoci che il progresso sia stato il risultato di un elegante dialogo tra posizioni diverse, dove a un certo punto si è deciso, collettivamente e pacificamente dopo un ricco buffet, di concedere un diritto. Ma la realtà è un’altra: la gran parte dei diritti di cui godiamo oggi è il frutto di azioni collettive e, spesso, violente. Certo, non sempre la violenza ha coinciso con il sangue versato - violento è anche uno sciopero - ma molto spesso sono stati i movimenti radicali – i cosiddetti “fianchi radicali” – a spingere il progresso in avanti.
Il ruolo dei fianchi radicali è chiaro: sono l’opzione violenta che i potenti vogliono evitare. Pensate a Martin Luther King. Ha potuto dialogare con un sistema opprimente come quello degli Stati Uniti perché chi deteneva il potere temeva che, ignorandolo, si sarebbe trovato a fronteggiare Malcolm X e la sua posizione ben più radicale. È stata quella minaccia, violentissima, più che la sola forza morale di King a costringere il potere ad aprire uno spiraglio verso una riduzione del razzismo sistemico. Lo stesso vale per il nostro Paese. Nel Dopoguerra, molte conquiste sindacali e misure sociali non sono nate da un’intesa pacifica, ma dalla necessità di disinnescare quei movimenti che aspiravano a un modello simile a quello sovietico. I fianchi radicali, anche senza arrivare al potere, hanno sempre avuto un ruolo: mettere paura, costringere il sistema a cambiare per non rischiare di perdere tutto.
E oggi? Non sappiamo se la crescente violenza collettiva contro i Ceo e il potere delle multinazionali fungerà da fianco radicale per un riequilibrio del potere e una democratizzazione dell’economia. Ma una cosa sembrerebbe evidente: da oggi in poi, il potere delle grandi aziende non sarà più percepito come prima. E questo, nel bene o nel male, è qualcosa che se è accaduto lo dobbiamo ricondurre all’azione di Luigi Mangione.
Se poi volete considerarlo un eroe o un violento squilibrato, questa non è una risposta che spetta a me dare. Ma quello che è successo ci obbliga a guardare più da vicino un sistema che, fino a ieri, sembrava intoccabile.
Rivoluzionare la normalità da oggi è un tema politico ineludibile, comunque la si pensi.
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https://buymeacoffee.com/alesahebi.Ho deciso di rimuovere un vecchio articolo da questo blog perché, credo, si sia rivelato nel tempo ingiusto. Credo sia doveroso anche fare passi indietro a volte e un mio commento che riguardava Selvaggia Lucarelli mi appare ora, forse perché avrò maturato una visione diversa, inopportuno. Mi dispiace aver cavalcato l’onda del momento in quella occasione (cosa che oltretutto imputavo) e le chiedo scusa. Cambiare idea credo faccia bene a tutti, prima o poi.
Ho rimosso anche un paio di consigli di lettura (i primi numeri) perché ora superati o comunque troppo legati all’attualità dell’epoca.
Spero, nel 2025, di tornare un po’ di più sui social. Se non ci riuscirò continuiamo a vederci qua.
Un abbraccio
Alessandro
Proteggiamo il nostro sistema sanitario nazionale che sta andando sempre di più verso la privatizzazione
Grazie Alessandro, una lettura interessante e preziosa come sempre. Non condivido il pensiero che l'azione di Mangione, in quanto gesto solitario, non possa caricarsi di valenza politica collettiva (e credo che le reazioni della gente dopo l'omicidio porterebbero esserne una prova) però il bello di non vederla sempre uguale su tutto è che si può crescere grazie al confronto. Un abbraccio ❤️