Alessandro Sahebi

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Il diritto a essere infelice

alesahebi.substack.com

Il diritto a essere infelice

Alessandro Sahebi
Sep 12, 2022
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Il diritto a essere infelice

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Tempo di lettura: 6 minuti e 38
Mi è doppiamente difficile scrivere questa mail.
In primo luogo perché, come sapete, parlo pochissimo di me: non posso dire di essere libero dalla cultura dell’autopromozione ma cerco di limitarne i sintomi custodendo con gelosia ogni sfera della mia intimità e rifiutando, forse con un eccesso di chiusura, di aprire scorci sulla mia vita privata qui o sui social.

Secondariamente perché uno dei sintomi della depressione, quando mi colpisce come sta accadendo adesso, è l’annientamento delle capacità creative, scrittura e formulazione di un pensiero in primis.
Temo che questa mia condizione renderà più imperfetto e meno accattivante il testo ma ho la necessità di trasformare questo mio dolore in reazione politica esprimendo la frustrazione che mi dilania quando realizzo di vivere in un sistema che non è in grado di garantire ai propri cittadini il diritto ad essere infelice.
Che, attenzione, non è il solo diritto ad essere accettati in quanto affetti da depressione né la sua spettacolarizzazione biografica al fine di normalizzarne l'esistenza.
Lo definirò più avanti. Prima vorrei raccontare una storia. 

Lavoratrici depresse

Non ricordo se in un libro di Zizek - ma potrei sbagliarmi - qualche tempo fa ho letto la storia delle lavoratrici depresse, che adatterò attraverso il mio pensiero non riuscendo a trovarne il riferimento bibliografico preciso. Chi ricorda la fonte mi perdonerà spero le numerose imprecisioni (e se me la segnala ancora meglio!).
Questa è la storia di due lavoratrici e attraversa due generazioni. La prima di cui parleremo è Karen. Nel maggio del 1975 Karen comincia a percepire un senso di malessere e realizza che le dinamiche tossiche del proprio ambiente di lavoro tendono ad aggravare le sue condizioni di salute mentale. La donna per prima cosa si rivolge prima ai propri colleghi e poi ai propri delegati sindacali e con loro intavola un’animata discussione: per prima cosa prova a proiettare le proprie paure e propri desideri su un piano collettivo, evidenzia i limiti del proprio ambiente di lavoro e poi decide, insieme al gruppo, di muovere lo scambio nel campo dell’immaginario, ipotizzando un futuro migliore. Si unisce ai propri pari e ottiene, attraverso la lotta sindacale, un miglioramento delle proprie condizioni di lavoratrice e di persona. La sua quotidianità migliora e inizia a stare meglio. 

Nel 2022 un’altra lavoratrice, di nome Naomi, comincia a percepire un senso di malessere e, similmente alla madre, realizza che le dinamiche tossiche dell’ambiente di lavoro in cui è immersa tendono ad aggravare le sue condizioni di salute mentale. La donna per prima cosa si rivolge ai propri colleghi che, diversamente da prima, non la ascoltano: c’è chi la deride, chi sminuisce il malessere collettivo, chi la isola o si defila per non cacciarsi nei guai. I lavoratori, in eterna competizione gli uni con gli altri, spendono energie per sopravvivere come individui e attuano forme di autocontrollo sociale per legittimare lo status quo che dovrebbe premiare i loro sforzi, paralizzando così il desiderio di miglioramento di Naomi. La donna, demoralizzata e privata di piattaforme sociali e di prospettive di miglioramento collettivo, si ritira in se stessa e privatizza la propria malattia mentale. Si rivolge così all’unica figura che apparentemente può aiutarla non tanto a migliorare la propria condizione di lavoratrice quanto ad accettare le dimensioni dello sfruttamento e a trasformarsi in una creatura resiliente alle tempeste esterne: il proprio terapeuta. 

La prima donna è vittima delle condizioni in cui è immersa e trasforma, con altri, l’ambiente per migliorare la propria traiettoria esistenziale. La seconda è parimenti vittima ma, isolata, può solo agire su se stessa legittimando l’impalcatura atomizzante dell’individualismo neoliberista, autocostringendosi ad un impietosa rinuncia alla dimensione politica delle malattie mentali.
Naomi è schiacciata, ora deve solo imparare ad essere comoda sotto la pressa capitalista.

La privatizzazione del malessere

La malattia mentale non è mai solo un fatto privato: la diagnosi della depressione racconta ciò che provo o ciò di cui sono affetto ma non mi dice niente delle spinte storiche, economiche e politiche che hanno alimentato o generato la condizione in cui vivo.

Perché mi sento sempre inadeguato? Cosa mi spinge a ritenermi costantemente poco valido e scarsamente performante? Quali sono gli effetti sulla mia psiche se non ho tempo, risorse materiali o stabilità economica? Chi sono oltre a ciò che faccio? Non ce l’ho fatta perché non mi sono impegnato abbastanza?

Affermare che, ad esempio, la mia depressione possa avere una radice politica non significa negare le cause medico-neurologiche della patologia, ma nemmeno aderire all’ingenua convinzione che uno psicologo o un farmaco possano, con poteri sovrumani, farsi carico delle contraddizioni di un sistema che stritola le persone e ne aggrava le debolezze. Politicizzare la malattia significa non accontentarsi di resistere o di anestetizzare i problemi, ma rileggerli nella loro sfera multidimensionale, che comprende cause ed effetti di natura tanto individuale quanto, appunto, collettiva.
Concepire la malattia mentale come un solo problema biochimico offre una sponda allo status quo, perché alimenta il circolo vizioso della privatizzazione sistemica della patologia stessa e alla sua progressiva depoliticizzazione (anche l’arretramento della spesa pubblica nella Sanità, con un nemmeno troppo sottile messaggio che suona come “Arrangiati e pagati i tuoi mali” fa parte della stessa produzione ideologica). La privatizzazione del malessere trasforma la malattia mentale in un’anomalia esterna al ciclo economico e sociale in cui viviamo, legittimando i processi e i meccanismi che invece ne caratterizzano l’ossatura. 

Stare male in un sistema malato è devastante, nella misura in cui la corsa al profitto rende gli individui che necessitano di una pausa delle zavorre alla crescita. E quindi, per loro natura, a rischio di esclusione sociale. Come degli scarti.
Per fuggire dal rischio di vivo così, almeno io, tre mondi in uno.
Da una parte l’Alessandro producens che non può fermarsi e che vive immerso nel senso di dovere del buon lavoratore: produrre articoli, postare su Instagram, partecipare agli eventi. Producens non può fare altro, se non continuare come se nulla fosse per non inceppare il meccanismo. Producens non può soffrire di depressione.
Dall’altra l’Alessandro politico, che non chiede tanto di stare meglio (ho qualche sospetto che i cicli depressivi mi accompagneranno per sempre, ahimè) ma vorrebbe quantomeno godere del diritto di essere infelice.
C’è poi l’Alessandro umano, che deve fare i conti tutti i giorni con il proprio piccolo buco nero. Ma questa è una vicenda personale. 

Il diritto ad essere infelice

Il diritto ad essere infelice non è solo il diritto al riconoscimento sociale e all’accettazione della depressione o di qualsiasi altro disturbo mentale. Questa è una forma vacua di diritto che non cessa di rendere l’infelicità una condanna. 

Pretendere ad esempio che le risorse del bonus psicologo vengano implementate - battaglia in cui a sinistra qualche mese fa ci siamo impegnati - senza chiedersi perché l’epidemia di ansia e depressione (soprattutto tra i giovani) sia diventata pressoché inarrestabile è agire sul piano della malattia come se questa fosse esclusivamente una patologia privata a cui si può porre rimedio una volta “accaduta”, senza alcuna speranza di prevenzione. Chiedersi quali siano le ragioni sociali del malessere, esplorarne le cause, decostruire le narrazioni carnefici della felicità collettiva è il primo passo per edificare il diritto ad essere infelice nella sua accezione più piena. 

Cosa vorrei? Vorrei essere infelice in una società che metta la felicità al primo posto, in cui la mia identità non sia un’emanazione del mio valore produttivo, in cui il mio benessere sia anche e soprattutto collettivo. Ovvero un sistema in cui le cause sociali del malessere siano centrali nell’equazione che regola l’iniziativa politica e non derubricate al solo status di “esternalità negative del processo economico”, come invece accade oggi. 

Essere infelice, o depresso, può succedere e sfortunatamente mi è successo come persona. Decidere che questo accada in una cornice che ne alimenta le cause e rende i suoi effetti insopportabili è una lucidissima scelta politica che ci riguarda tutte e tutti.
Nel 1987 Margaret Thatcher, madrina politica del pensiero neoliberista, affermava che la società non esiste, che esistono solo gli individui. 
Gli individui da soli sono più vulnerabili, meno in grado di affrontare le difficoltà esistenziali e più esposti ai rapporti di forza sfavorevoli. 
Affermare, con buona pace della Thatcher, che la società esiste e che ha degli effetti sulle nostre vite, anche negli aspetti apparentemente più profondi e intimi, è il primo passo per curare noi stessi e il mondo in cui viviamo. 

Ripoliticizzare la malattia mentale è un atto collettivo che fa bene ad ognuno di noi perché prova ad agire su dimensioni scientificamente marginalizzate ma centrali in ogni esistenza. Significa costruire una società felice che dia a tutti il diritto di essere infelici, perché una società felice è una società si prende cura di tutti coloro che restano indietro, indipendentemente dalle cause o dai costi.
Una società felice è una società che permette loro di fermarsi.
Una società felice è una società che, innanzitutto, è politica.
Una società felice è una società che rifiuta l’individualismo estremo dell’ideologia del capitale, per ricostruire il tessuto sociale lacerato dall’egoismo.
Una società socialista, forse, senza cercare altri nomi.
Provare almeno ad immaginarla? Potrebbe valerne la pena.


Ultime novità

Come ho anticipato sto attraversando un momento delicato e importante e ho ridotto le pubblicazioni su tutti i miei canali.
Questo non significa che non ci sarò, le elezioni si avvicinano e mi sforzerò per presidiare le notizie o gli argomenti più importanti senza sentirmi schiavo delle flash news o degli algoritmi. 
Non ne avrei parlato, come ho sempre tenuto piuttosto nascosta la mia convivenza ciclica con questa situazione. Mi sono sentito di farlo per colmare il silenzio di questi giorni e perché, forse, scriverne potrebbe farmi bene.
Ci sono, devo solo riprendere fiato. 

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Un abbraccio,
Alessandro

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5 Comments
Simone
Sep 13, 2022

Grazie, Alessandro. Riflessione profonda ed attenta, e tanto più preziosa - considerato lo stato d'animo particolare, da cui nasce.

Personalmente, mi spingerei anche un po' oltre: la società "social" in cui siamo immersi, non solo privatizza l'infelicità, di fatto censurandola ed abrogando il suo potenziale di cambiamento... Fa di peggio, quando sostituisce alla normalità (che si compone ANCHE di ordinarietà e noia, quando non di vera e propria infelicità), una quotidianità fatta di sorrisi, successi, sforzi trionfali, foto sorridenti, perlopiù scattate in posti meravigliosi...

E' anche questo, che non va bene: non solo dobbiamo difendere il DIRITTO, di essere infelici... mi verrebbe quasi da dire addirittura, che è importante difendere il DOVERE di esserlo, almeno ogni tanto (beninteso, non si legga in questo un invito ad una "contrizione posticcia vetero-cattolica", quanto piuttosto un invito ad una sana onestà intellettuale, che comporti banalmente, almeno ogni tanto, l'ammissione - anche pubblica, anche "social", why not - della propria insoddisfazione ed inadeguatezza).

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Lucia Liberti
Sep 13, 2022

Grazie della condivisione 💛

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