Guerra e mercato del dolore
Perché cerchiamo notizie dolorose, perché questo è un business
Torno dalla mia esperienza in Polonia e in Ucraina. Pochi spicci, per un reportage sul traffico di donne ucraine in Europa. In nero, su uno dei quotidiani più prestigiosi d’Italia. Non potevo accettare e sebbene ci abbia pensato non l’ho fatto, chiudendo una porta per sempre.
Giorni di frustrazione, lo ammetto. Ma non appena ho condiviso la vicenda sui social sono stato riempito di messaggi da colleghi e colleghe della stampa. Quello che consideravo un brutto capitolo della mia vita è in realtà la quotidiana realtà dei giornalisti nel nostro Paese. Mi sono fermato, ho pensato tanto: “Se non denuncio io che ho visibilità, chi avrà mai il coraggio di farlo?”. Ho deciso di provare a cambiare le cose, mettendo forse in gioco la mia carriera.
Ma di questo ve ne parlo dopo.
La scarpetta rosa al confine con l’Ucraina
Tra le tante conoscenze importanti che ho fatto in Polonia e Ucraina c’è il giornalista freelance italo-bosniaco Alia Alex Čizmić.
Discussioni profonde, la condivisione di valori e prospettive sulla professione, qualche momento di svago per rendere meno stressante quello che ci circondava.
Durante una delle tante pause caffè - più utili per riscaldarsi che per restare attivi, va detto - Alex tira fuori la sua fotocamera e mi mostra un’immagine. Una giornalista e un cameraman: la schiena di quest’ultimo è pesantemente piegata in avanti e inquadra una scarpetta rosa. “La vedi quella scarpa? - mi chiede Alex - Non era lì prima. La spostava la giornalista a piacimento a favore di telecamera, probabilmente nemmeno era per abbandonata, credo l’abbia presa da uno dei numerosi scatoloni di vestiti messi a disposizione dai volontari”.
Una scenografia, in uno dei luoghi al mondo più carico di immagini reali a cui non sarebbe servita nessuna artificiosa ricostruzione.
Ci guardiamo, niente di nuovo ma tutto da cambiare.
Finisce il caffè, si torna al confine. Almeno fino a quando il freddo non ci costringerà a tornare al bar.
Edonismo depressivo, infodemia e pendolo agliofobico dell’informazione
Che la costruzione di uno set fotografico, purché non alteri la realtà dei fatti, sia o meno accettabile da un punto di vista deontologico se ne discute da anni e non mi addentrerò in questa riflessione.
La domanda al quale proverò a rispondere, consigliando poi un libro, è però un’altra: perché farlo là dove le immagini, quelle vere, sono abbondanti e sufficientemente esplicative?
Semplice: per incrementare scientificamente la densità del dolore e venderne a basso prezzo il prodotto finale: il clic.
Secondo il filosofo Fisher la nostra generazione vive immersa in quello che potrebbe essere definito “edonismo depressivo”, ovvero una forma di depressione che si caratterizza non tanto dall’impossibilità nel provare piacere - ovvero la definizione grossolana della depressione comunemente intesa - quanto nell’impossibilità di provare qualcosa al di fuori del piacere stesso. L’edonismo depressivo è così un insieme di consumo ininterrotto di prodotti materiali e culturali (film, musica, video, informazioni) che costruiscono un guscio protettivo composto da continue scariche di novità. Si tratta, innanzitutto, di un tallone d’Achille biologico: per centinaia di migliaia di anni siamo stati incuriositi dall’innovazione e abbiamo cercato attraverso questa di fuggire dalla sofferenza e dalla fatica cercando di migliorare la nostra condizione.
Ciò che differenzia la nostra epoca da quelle precedenti è però la disponibilità infinita di materiali a cui siamo sottoposti: possiamo mangiare, comprare ed informarci a qualsiasi ora, colmare il vuoto dell’attesa e della noia in pochi secondi, accedere al piacere e alla novità con un utilizzo minimo di risorse energetiche, spesso limitate al movimento di un dito o del mouse del Pc.
L’eliminazione della sofferenza tuttavia è apparente, perché la sofferenza continua ad esistere nel mondo, solo che noi siamo sempre meno in grado di farne fronte.
Di questo si nutre il pendolo agliofobico dell’informazione.
L’infodemia, ovvero la mole pressoché infinita di informazioni che i media riversano su tv e social network parlando di un fenomeno eccezionale (come una guerra o una pandemia), alimenta il perverso pendolo informativo in cui ci troviamo: da una parte non riusciamo ad affrontare il dolore e ne siamo terrorizzati, dall’altra nel vano tentativo di comprendere (comprendere nella sua accezione più letterale, cum + prendere, afferrare e farne parte) cadiamo in una bulimia di immagini e notizie del conflitto sperando di poterlo capire e poterlo esorcizzare.
Il pendolo è una contraddizione in essere: siamo profondamente chiusi di fronte al dolore in quanto antitesi del piacere di cui siamo dipendenti ma, dall’altra parte, stiamo cercando di accedere ad ogni sua incarnazione per normalizzarlo e salvaguardare la nostra salute mentale dall’ansia e dalla paura che possa far parte della nostra esistenza.
Abbiamo un disperato bisogno di sapere di più, vedere di più e provare di più per comprendere ciò che ci è estraneo. E questa nostra infinita fame di dati è un’opportunità d’oro per chi fa informazione.
Non solo armi e ricostruzione, l’economia di guerra arricchisce i professionisti della stampa ricompensandone lo sforzo ini social currency (visibilità per la notoria tracotanza) e clic, là dove il clic rappresenta il sistema di ricavo oramai più utilizzato in connivenza con le grandi piattaforme pubblicitarie del web. Si tratta di fare ricavi sulla debolezza innata nelle persone, senza mettere in atto alcuna precauzione.
Con un po’ di onestà intellettuale possiamo definirlo il segreto di Pulcinella di noi giornalisti: lo sgomento a comando è il nostro pane.
Il granello di sabbia che interromperebbe il meccanismo di questo pendolo? Un’informazione più equilibrata, ovvero un’informazione in grado di porre un limite al mercato del clic e che tenga conto della salute mentale e fisica dei propri lettori e delle proprie lettrici.
La normalizzazione del dolore della guerra - che non significa normalizzazione del conflitto in sé ma una sua migliore assimilazione da un punto di vista sociale e politico e non solo da quello narrativo basato sull'emotività tragica - interromperebbe il pendolo informativo nelle sue fasi più distorte, imporrebbe una riduzione del numero di informazioni da fornire al lettore, permetterebbe alle persone di vivere il dramma della guerra senza alcuna forma di doping - e speculazione - sul dolore. Si tratterebbe di affrontare la sofferenza con chi legge, non di cavalcarla. Riavvicinare coloro che, per proteggersi, in questi giorni hanno deciso di far saltare il ponte tra sé e il mondo esterno.
Una visione naif e ingenua da una parte, una necessità psicologica su larga scala se letta da un punto di vista di salute pubblica.
Un’analisi sui sistemi di ricavo dei giornali e sulla logica mercantilista che ammorba chi fa informazione noi giornalisti, forse, dovremmo farla. Diversamente saranno inutili le ore di formazione e di conferenze che ci spariamo ogni anno fingendoci indignati per il calo di fiducia nei confronti della categoria.
Partiamo dal fallimento del nostro modello, è già qualcosa.
La guerra sarebbe meno interessante e vendibile sì, ma ci risparmieremmo cadaveri in prima serata, bambine con fucile e lecca lecca in posa o scarpine rosa fintamente abbandonate al confine con la Polonia.
E meno sofferenza artificiale tra chi ci legge.
Ne vale la pena.
Byung-chul Han: La società senza dolore
Il consiglio di questo mese, in tema, è Byung-Chul Han, tra i pensatori più importanti e più letti dei nostri tempi. Dato che ho già scritto troppo non mi dilungherò molto: nel libro si affronta con stile nitido e conciso una delle fratture al cuore della società di oggi: la paura del dolore.
E di come il marketing e il sistema senza freni di ricavo sulla debolezza delle persone ne approfittino ne parlerò a breve, qui o nei miei post.
Insomma, questa mail non è esaustiva in quanto il primo passo di un lungo percorso.
Restiamo connessi per affrontarlo insieme.
Ultime novità
Come ho detto in apertura valuterò con un legale se ci sono i presupposti per segnalare all’Ordine dei Giornalisti chi sfrutta il lavoro di migliaia di precari sottopagando e umiliando un’intera categoria. Stiamo parlando di uno degli editori più potenti e famosi del nostro Paese e detto molto francamente sono stato parecchio male dalla paura. So che ciò che faccio è giusto, è ciò che ho sempre difeso del resto: non piegarsi, unirsi, lottare. Dall’altra so che sarà probabilmente una traumatica battuta d’arresto per la mia carriera e che sicuramente ne pagherò le conseguenze. Significa perdere opportunità, significa calpestare piedi, significa aprire un conflitto in evidente disparità di forze e mezzi. Ma una domanda mi ha tormentato in questi giorni: “Se non io, chi altro?” Procederò dunque se dovessero esserci le basi. Costi quel che costi. Lo devo a chi mi segue ma soprattutto a me stesso.
Di solito, a questo punto, ringrazio uno ad uno coloro che sostengono il mio lavoro con un caffè su Buy Me a Coffee. Oggi farò diversamente rivolgendomi direttamente a chi legge.
Se vuoi sostenere la mia indipendenza e il mio sforzo divulgativo con un contributo minimo puoi farlo. Non posso darti nulla in cambio se non il mio ringraziamento personale che proverò a mandarti via mail. Nella sezione “Membership” di Buy Me ea Coffee ho inserito la voce “Sostegno minimo”. Se vuoi far parte di coloro che ogni mese mi sostengono con 2 euro, questo è il momento. Concretamente non cambierà molto se non farai questo gesto ma il vostro sostegno mi permette di continuare e per me vuol dire tanto. Non l’ho mai detto espressamente ma forse questa volta ne avrò davvero bisogno.
Qui il link per offrirmi un caffè singolo o un sostegno minimo costanteBuy me a coffee
Potete seguire il mio collega Alex, che ha scattato la foto di questa mail, su Twitter
La mia inchiesta sul traffico di esseri umani prosegue e prende forme nuove. A breve vi racconterò.
Che le persone possano diventare merci è una vergogna, questo non dimentichiamolo mai nemmeno quando apparentemente sembra esserci consenso.Grazie dei messaggi di questi giorni. Potessi, vi abbraccerei tutte e tutti. Sono stati per me una bella boccata d’ossigeno. Grazie, grazie e grazie.
Alessandro
Il racconto dell'immagine costruita che hai riportato e il discorso sulle immagini del dolore mi hanno ricordato moltissimo anche il saggio di Susan Sontag: Davanti al dolore degli altri, che tratta proprio del tema delle fotografie di guerra. Grazie per le tue riflessioni