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Brucia Tel Aviv. Ci sono vittime innocenti, come sempre in questi casi. Ma qualcosa si inceppa, In poche ore ho ricevuto decine di messaggi: non riesco a dispiacermi fino in fondo. È come se una parte di noi dicesse: se la sono cercata. E poi subito l’altra parte sussurrasse: no, i civili non c’entrano, cosa stiamo diventando?
Viviamo un’empatia sospesa. Congelata. Perché Israele non è un Paese qualsiasi. È uno Stato fondato sulla rimozione, sull’apartheid, sul genocidio. E quando un potere così viene colpito, qualcosa dentro di noi si vendica. Non razionalmente ma emotivamente sì.
Resta il disgusto per la guerra ma si accompagna ad una specie di sollievo sporco. Il desiderio che il dolore si riequilibri, anche se a caro prezzo. Come se la Storia avesse girato la clessidra, e ora toccasse a loro.
E così ci scopriamo umani. Imperfetti, contraddittori, scomposti.
Non giustifichiamo il conflitto. Ma non piangiamo più come prima. E questo dice molto su di noi. Non tanto di come siamo ma di cosa siamo diventati.
L’illusione del darwinismo bellico
La mia è stata la generazione dell’esportazione compulsiva del sé occidentale, ovvero l’imposizione non solo armata ma anche epistemica del modello statunitense: dal 2001 in poi tutto ciò che esisteva doveva essere pensabile e misurabile secondo coordinate occidentali.
Democrazia, mercato ed elezioni componenti imprescindibili per ogni popolo, tutto ciò che non era leggibile attraverso la grammatica americana andava rieducato. Bisognava insegnare ai popoli come si sta al mondo.
Il mondo diventava un campo da addomesticare, una periferia da alfabetizzare secondo i codici epistemici dell’Impero. Tolte poche resistenze, confinate perlopiù nelle riserve indiane della sinistra radicale, era più che mai accettato che lo Zio Sam detenesse l’onere di vestire il ruolo di poliziotto del mondo, esportando democrazie e mercati capitalisti negli Stati ancora non perfettamente allineati alla civiltà. Anche le guerre avevano una funzione pedagogica: servivano a insegnare qualcosa. A esportare. A redimere. I morti civili rappresentavano danni collaterali. Spiacevoli, certo, ma vittime sacrificali necessarie per permettere al mondo di progredire verso il fine ultimo: l’allargamento dei diritti.
Un’idea così violenta da risultare affascinante: fare il bene, ma con le bombe. E supportata da una sorta di darwinismo bellico: siamo i più forti, ce la faremo, non si può perdere. Lo stesso pattern che anche oggi ci fa pensare che Israele, militarmente superiore, vincerà con facilità.
Poi, però, qualcosa si è inceppato e le campagne militari statunitensi si sono rivelate tutte fallimentari sul lungo periodo: dopo 20 anni dalla prima bomba i talebani sono tornati al potere in Afghanistan, in Iraq e Siria si è instaurato prima l’Isis e poi governi instabili e non particolarmente democratici, in Libia si sono susseguiti anni di guerra civile. Insomma, l’idea del “più forte vincente” si è rivelata un clamoroso falso universale. Non abbiamo esportato stabilità. Abbiamo esportato rovina. E ora il mondo ci osserva con diffidenza, l’Occidente come modello si è rivelata una scottante illusione.
E, sotto l’ombra di quel lutto, oggi ci chiediamo: siamo certi di voler accompagnare Israele verso una bruciante sconfitta?
Israele ha perso sul piano morale. Il resto è solo ritardo narrativo.
È del tutto inutile, in questo momento, fare previsioni che abbiano un senso: la geopolitica è diventata il fantacalcio degli universitari, una disciplina che si prende estremamente sul serio senza avere in realtà nessuna base scientifica, nessun modello verificabile, solo un grande archivio di eventi da interpretare a posteriori. Eppure alcune considerazioni si possono fare.
Non sono un esperto militare ma mi occupo di politica, e guardando ciò che sta accadendo intorno allo Stato di Israele non posso non pensare al caso del regime di apartheid sudafricano. Anche lì c’era una minoranza potente che si autoconvinceva di essere civilizzata in mezzo a un mondo barbarico; anche lì il potere si reggeva sulla segregazione, sulla separazione forzata, sulla negazione sistematica dell’umanità dell’altro. L’apartheid sudafricano non è stato solo un sistema giuridico: è stato una visione del mondo, una pedagogia della disuguaglianza. Dal 1948 al 1994 il Sudafrica ha legalizzato il razzismo in ogni ambito della vita sociale, politica ed economica, spacciando ordine per civiltà, controllo per sicurezza, supremazia per democrazia. E come spesso accade, anche quel regime era perfettamente integrato nei giochi dell’Occidente: gli Stati Uniti e il Regno Unito, per anni, hanno difeso l’indifendibile, e lo hanno fatto in nome degli affari, delle alleanze, della guerra fredda. Il Sudafrica prendeva miliardi, firmava contratti, riceveva armi, faceva accordi commerciali, stringeva mani nei salotti buoni della diplomazia internazionale. Viveva, come Israele, nella legittimità d’altura: quella costruita a miglia di distanza dalla realtà, in ambienti sterilizzati, dove il potere si autoassolve e si rispecchia. Ma nel frattempo qualcosa si sgretolava sotto la superficie: un’emorragia silenziosa e irreversibile, ma di portata storica epocale. Un’emorragia di legittimità morale. Un regime può sopravvivere a tutto, tranne a quando il mondo smette di credergli. E quando questo succede, anche il più forte comincia a franare.
Non importano le lobby, i think tank sionisti, i politici che ripetono a pappagallo spente dichiarazioni dettate da Gerusalemme: come il Sudafrica dell’apartheid (caduto nel 1991 sotto le condanne internazionali e con la fuga imbarazzata degli alleati Usa e Uk) anche Israele non gode di buona salute morale: semplicemente non è più credibile.
E no, non è Benjamin Netanyahu, è proprio il sistema Israele. Nemmeno le accuse di antisemitismo - che prevedibilmente riceverò anche io - sortiscono alcun effetto - e infatti non mi interesseranno -. E questo, al netto dei conflitti militari, è un problema enorme per tutto l’Occidente.
La fine del centro emittente
Quel che affligge la classe politica occidentale è l’incapacità - forse generazionale - di comprendere che questa è l’epoca che segna la fine del centro emittente. Per decenni il mondo ha accettato, più o meno passivamente, una versione ufficiale delle cose, trasmessa a reti unificate, rilanciata senza troppe domande da giornalisti più impegnati a cenare coi ministri che a chiedergli conto delle loro menzogne. Bastava poco: un discorso alla nazione, una conferenza stampa, una prima pagina. E la verità si installava. Nel 2003 Colin Powell sventolava davanti al consiglio di Sicurezza delle nazioni unite una fialetta per giustificare l’invasione dell’Iraq. Dentro c’era la prova, dicevano, che Saddam Hussein stava fabbricando armi chimiche. Era una bugia, e lo sapevano. Ma ci vollero anni per scoprire che si trattava di una fake news di Stato.
Oggi la comunicazione del centro emittente si è rotta. Le verità ufficiali vengono smentite in tempo reale, le narrazioni si sovrappongono, si contestano, si smontano pezzo dopo pezzo, e ciò che prima era un annuncio ad effetto oggi è una miccia che rischia di esplodere in faccia a chi l’ha accesa.
Quando Israele accusa l’Iran di violare il trattato di non proliferazione nucleare e di esser in procinto di sviluppare armi atomiche, l’AIEA, l’agenzia ONU che dovrebbe certificare, smentisce pochi minuti dopo. E gli utenti lo ricordano, con una memoria che ormai è collettiva e in tempo reale: Israele non solo non rispetta il trattato che imputa di violare all’Iran, ma non riconosce nemmeno l’AIEA. Né rispetta l’ONU. Che anzi, è definita “una palude antisemita” e le cui risoluzioni, come scrive Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, “sono carta da cesso”.
Anche il genocidio palestinese, a lungo coperto e giustificato col solito argomento - il terrorismo di Hamas - non trova più alcun appiglio. Quelle verità rimosse per tanto tempo emergono. Emergono grazie a giornalisti e attivisti indipendenti che resistono agli algoritmi, sfidano le censure, rifiutano la linea editoriale che diceva che fosse meglio non parlarne. Il centro emittente è crollato. Il re è nudo. E quel che resta dell’Occidente comincia a fare i conti con l’erosione della propria legittimità morale. Il mondo non ci crede più. E chi, come noi, è dentro questo crollo, si ritrova combattuto: tra il senso di impotenza di fronte al male che continuiamo a generare, e una forma di malinconia imperiale, il rimpianto confuso di aver perso le redini del mondo come modello. Ma c’è anche qualcosa di più scomodo, più viscerale, che si insinua nei pensieri di molti anche se non si dice: una sensazione persistente, quasi un riflesso karmico, una giustizia contorta che ci fa sentire che forse, nel vedere Israele subire — anche solo in parte, anche solo per un momento — ciò che ha inflitto a un intero popolo colpevole soltanto di esistere lì, qualcosa nel cosmo si è pareggiato. Non è bello. Ma è reale.
Esultare per una bomba
La geometria del dolore non si riequilibra, mai. Illudersi che il sangue versato a Tel Aviv possa compensare quello versato a Gaza è un sollievo effimero, una scorciatoia emotiva che non possiamo permetterci. Perché trovar conforto nella sofferenza del popolo israeliano significa abdicare a quell’etica che vorremmo opporre all’orrore, significa scivolare nel meccanismo stesso della vendetta che fingiamo di combattere. Ma restare lucidi non implica restare ciechi. Se siamo arrivati fin qui, se ci ritroviamo ad annaspare in questa spirale, è perché ci hanno trascinato loro. E non solo Israele, ma l’intero ordine occidentale che lo sostiene, che lo arma, che ne fa il terminale coloniale di una visione del mondo impermeabile a qualsiasi trasformazione autentica. La democrazia occidentale ci permette di parlare, di litigare su tutto: banchi a rotelle, GPA, schwa, energia nucleare. Possiamo cambiare partito, firma, profilo, canale YouTube. Ma non possiamo cambiare le fondamenta imperialiste. Il sistema è blindato. Non possiamo uscire da un modello che ci impone, per sopravvivere, Stati sottomessi nel Sud globale, economie dipendenti, governi corrotti o ricattati che producano per noi, che inquinino per noi, che ci consentano di allargare mercati saturi, narcotizzare i nostri salari, pompare il nostro PIL.
Tutto ciò che ha provato a opporsi fuori dai confini è stato invaso, destabilizzato, rovesciato. Tutto ciò che ha provato a ribellarsi dentro è stato marginalizzato, ridicolizzato, represso. La questione di classe, unica vera faglia nel terreno, è stata sepolta sotto montagne di identità monouso e conflitti performativi. Perché la classe, a differenza del resto, mina davvero gli equilibri di potere.
L’idea che l’Occidente – e i suoi avamposti, come Israele – possano perpetrare all’infinito violenza e accumulo senza pagarne mai il prezzo è una certezza stanca, che attraversa tutto il Novecento fino ad annacquarsi nei primi anni del Duemila. E così, per molti, vedere l’impero colpito diventa un sogno proibito, un desiderio rovesciato: che crolli Netanyahu nel tentativo di far cadere gli ayatollah, che l’assedio porti allo scoperto l’assediante, che il male che abbiamo esportato finalmente ci si rivolti contro. Non è una speranza giusta o sbagliata. Ma è reale. È una tensione. E quella tensione possiamo raccoglierla, riplasmarla. Possiamo prenderla e farle dire altro. Non trasformarla in compiacimento, ma in motore. Non lasciarla marcire nel cinismo, ma spingerla oltre: in una politica del risveglio. Perché quella voglia di vendetta che ci attraversa, quella rabbia karmica che ci scuote, può diventare energia di liberazione.
Non altrove. Qui. Dentro l’Impero. Come accadde in Sudafrica, la frattura non verrà da fuori. Arriverà prima di tutto da dentro. Dalla capacità di organizzarsi, di resistere alla repressione più dura, di rispondere con lotta collettiva alla paralisi dell’individuo. Evadere dalla calma apparente, dallo sfinimento addomesticato, dal ruolo passivo di chi guarda e commenta mentre tutto brucia. È il momento di agitarsi. Di urlare. Di non aspettare. Di rifiutare la dicotomia tra Bene e Male, di affermare che il popolo iraniano (come ogni altro popolo al mondo) non vede nelle nostre bombe una deflagrazione salvifica. Che denunciare Israele non significa appoggiare gli Ayatollah e la loro teocrazia, perché questa - contrariamente a ciò che ci vuole instillare il centro emittente - non è una lotta tra tifoserie.
Ci sono momenti — decisivi, irrimandabili — in cui la Storia ci mette davanti a battaglie che non sembrano affatto destinate alla vittoria. Eppure devono essere combattute. Perché ciò che conta non è solo vincere, ma rifiutare l’inerzia. Rifiutare il silenzio. Rifiutare il privilegio vigliacco di voltarsi dall’altra parte. Nelson Mandela disse che un vincitore è semplicemente un sognatore che non si è mai arreso. E noi siamo ancora quel sogno. Anche se ci dicono che è ingenuo, anche se ci accusano di estremismo, anche se ogni parola che pronunciamo sembra infrangersi contro il muro compatto del centro emittente dell’Impero, quello che decide cosa può essere detto, sentito, accettato. Ma non sarà quel centro a spegnerci. Non sarà la sua macchina propagandistica, non saranno i suoi editoriali moralisti, né le sue lobby da salotto a cancellare in noi l’idea radicale che un altro mondo sia ancora possibile. Israele può essere fermato. Non con gli eserciti — che perderanno — ma con la legittimità che si sgretola, con l’opinione pubblica che si sveglia, con la disobbedienza, con la pressione, con il coraggio di chi rompe la narrazione ufficiale e alza la voce dove è stato ordinato il silenzio. È questo il compito oggi: lottare. Anche senza garanzie. Anche senza vittorie facili. Anche contro tutto.
Sarà, se lo vogliamo, il loro Sudafrica.
Alcune news
Sono figlio di dissidenti, dal 1979 la mia famiglia è nella conta della diaspora iraniana per essere in opposizione al regime di Tehran. Per cui ogni accusa di sponda al regime la respingo con fermezza al mittente. Semplicemente il nemico del mio nemico non è per forza un mio alleato, soprattutto se è uno Stato che commette genocidi.
Grazie ancora per Questione di Classe. Il libro è già in ristampa (dopo solo 7 giorni dall’uscita le copie in circolazione sono finite), non mi aspettavo un supporto così. Davvero grazie, spero sia all’altezza. Lo trovate in tutte le librerie (scelta preferibile) o sugli store online.
Sono altresì orgoglioso di poter dire che nelle presentazioni le persone si sentono a loro agio nel dirmi che non hanno soldi per permetterselo. È indubbiamente un dramma ma se possiamo cominciare ad ammettere di avere difficoltà economiche senza sentirci in colpa vuol dire che qualcosa sta cambiando. Nel frattempo sto facendo di tutto per far arrivare il prima possibile copie del mio libro destinate a tv e giornali nelle biblioteche comunali che mi avete indicato.
Il tour estivo è pubblico e trovate su IG, link in bio, il calendario date.Ringrazio anche i 2512 sostenitori e sostenitrici che con un caffè, continuo od occasionale, mi supportano nel mio lavoro. Ciò che faccio, per le questioni sopra riportate, non si presta al mainstream e il supporto che mi date è fondamentale, soprattutto da parte di coloro che lo fanno mensilmente con una membership.
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Buona continuazioneAlla prossima
A.
Segnalo che il libro è disponibile in formato digitale su MLOL della rete bibliotecaria bergamasca :)
Per una volta leggo un tuo pezzo con cui non sono d'accordo se non per qualche passaggio. Mi sembra una lettura molto, troppo ottimista.