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C'è qualcosa di fatalmente magnetico in Donald Trump. Una forza che lo rende dirompente per i suoi elettori, scandaloso per i suoi avversari. Non si tratta solo di linguaggio sguaiato o cinismo senza filtro. Trump ha un'abilità unica: spostare il baricentro della realtà normalizzando l’impensabile.
Ribrandizzare ciò che è comunemente considerato impossibile, perfino ripugnante. Un gioco sporco, ma incredibilmente efficace: dire l’indicibile, ripeterlo senza sosta, estremizzarlo fino a farlo sembrare grottesco. E poi, aspettare. Aspettare che il terreno si assesti, che il seme germogli. Che l’orrore diventi normalità. E, in questo gioco, il discorso pubblico è costretto a reagire: scandalo, indignazione, dibattito. Una macchina che, lentamente, inizia a trasformare l’impensabile in realtà.
Non è un semplice fenomeno politico, è una strategia di ingegneria sociale. Un'operazione sistematica che ha normalizzato la deriva autoritaria in Occidente, la deportazione e la disumanizzazione dei migranti. È il trionfo di un discorso che giustifica l'intollerabile, fino a trasformare la pulizia etnica a Gaza in un’opportunità di investimento per il capitalismo immobiliare.
Eppure, c'è stato un tempo in cui anche noi usavamo il ribaltamento come arma politica. Azzardavamo l’impossibile, senza vergognarci di sembrare incoerenti, senza temere di essere etichettati come utopisti. Abbiamo sfidato l’ordine stabilito, abbiamo messo in discussione ciò che sembrava incrollabile.
E quel coraggio, quel rifiuto di accettare il possibile come unico orizzonte, oggi potrebbe portarci su Marte, far abolire la proprietà privata, e persino sconfiggere Trump. Vi spiego come, tra poco.
Dall’impensabile all’accettabile
Come spiegava Joseph Overton nel dibattito politico esistono concetti che rientrano nella finestra dell’accettabile, ossia quelli che popolano i noiosi talk show mainstream, le conferenze stampa prudenti, le interviste calibrate al millimetro. Si discute di misure economiche, di legalizzazione delle droghe leggere, del nuovo codice della strada. Questioni che accendono il dibattito ma non lo infiammano, che scatenano indignazione momentanea, ma che si rivelano storicamente irrilevanti.
La finestra dell’accettabile è tuttavia enormemente instabile e, ad un certo punto, idee considerate estremiste hanno fatto breccia, permettendo a pochi sostenitori di normalizzare ciò che un tempo era impensabile.
Concetti come democrazia, libertà, diritti sul lavoro un paio di secoli fa erano percepiti come minacce sovversive, scandalosi anatemi contro l’ordine costituito. Erano bestemmie antisociali, eresie pericolose per l’élite dominante.
Ma una volta pronunciate, una volta entrate nel linguaggio comune, queste idee hanno costretto il dibattito a cambiare forma. La discussione non era più sul se, ma sul come. Quando i lavoratori hanno chiesto di distribuire più equamente i profitti del lavoro per mezzo dell’esproprio proletario, le élite hanno compreso che non potevano più reprimere l’idea alla radice. Dovevano negoziare, trovare un compromesso, cedere terreno e concordare delle concessioni, quelle che comunemente oggi definiamo diritti dei lavoratori. Diritti di cui, sia ben inteso, non godresti se un estremista ad un certo punto non avesse pronunciato ciò che per l’epoca era impronunciabile: dignità per chi lavora.
Oggi la stessa dinamica si sta applicando in direzione opposta. Quando Donald Trump suggerisce che Gaza potrebbe essere trasformata in una distesa di resort per turisti, sa perfettamente che la sua proposta è una provocazione, che verrà presa come un insulto alle Nazioni Unite e ai Paesi arabi.
Ma sa anche qualcos’altro: che così facendo sta spostando il baricentro del dibattito. Con una sola dichiarazione l’idea di una deportazione di massa non è più un tabù. È diventata un’opzione sul tavolo, una possibilità da prendere in considerazione. E quando l’orrore viene discusso, quando il genocidio diventa una variabile negoziabile, è il segnale che qualcosa è cambiato. È passato dal se al come.
Dalla repulsione alla mediazione.
La comunità internazionale infatti non si chiederà più se sia accettabile rimuovere un intero popolo dalla propria terra. La domanda diventerà come ciò possa avvenire, magari cercando una transizione "umanamente sostenibile". Solo pochi mesi fa quest'idea sarebbe sembrata un’eresia, un abisso troppo profondo da attraversare. Eppure, come è già accaduto, con ogni centimetro guadagnato verso la normalizzazione, il confine dell’impensabile si restringe. Si fa più sottile, più invisibile, fino a scomparire del tutto. E quando non c’è più un confine, l’impensabile diventa una possibilità accettabile, e con essa, l'orrore si fa ordinario.
Dall’accettabile all’inamissibile
La buona notizia è che nulla che rientra nel recinto dell’accettabile è destinato a rimanerci per sempre. Un tempo discutere di schiavitù totale o dell’isteria femminile come piaga sociale era considerato normale, così normale che interi sistemi giuridici, economici e sanitari si reggevano su questi concetti. Eppure, oggi, nessun politico – nemmeno il più reazionario – si sognerebbe di proporre apertamente il ritorno delle catene ai piedi dei lavoratori o l’elettroshock per le donne ribelli. Certi orrori sono stati espulsi dallo spazio del dicibile. Non per gentile concessione, ma perché qualcuno, a un certo punto, ha avuto il coraggio di sfidare la normalità, di spostare il dibattito fino a rendere impensabili le barbarie di cui il sistema si nutriva.
E un domani, si spera, persino le proposte più popolari di Trump potranno essere scalzate dal dibattito.
La cattiva notizia è che non basta aspettare che accada per inerzia. Non basta sperare che l’indignazione dei social, le proteste ordinate e formali, le condanne di partiti istituzionali o editorialisti moralisti fermino Trump e i suoi omologhi europei. La macchina reazionaria non si arresta di fronte alle accuse di immoralità. Al contrario, se ne nutre.
Ogni anatema lanciato dagli intellettuali liberal, ogni editoriale scandalizzato, ogni allarme sulla fine della democrazia è una medaglia al petto per il nuovo fronte della restaurazione. Ogni insulto ricevuto dalle élite progressiste è una prova di autenticità per i loro seguaci. Li rafforza, li galvanizza, li fa sentire parte di una crociata contro un ordine dominante che, ai loro occhi, è da abbattere.
Il problema è che chi si oppone alla deriva reazionaria continua a combattere con le armi sbagliate. Continua a credere che la vergogna possa fermare chi ha fatto della sfacciataggine la propria bandiera. Continua a pensare che basti indignarsi, denunciare, smascherare. Ma non funziona così, forse. Se bastasse la sanzione morale, Trump non sarebbe mai arrivato alla Casa Bianca. Se bastasse il pubblico ludibrio, Meloni non sarebbe mai salita al governo. Se bastasse dire che certe idee sono “intollerabili”, non staremo qui, oggi, a parlare della deportazione di massa come di un’opzione politica discussa sui giornali.
La storia insegna che l’unico modo per sconfiggere un’ideologia è costruirne una più forte, più credibile, più desiderabile. Perché quando le masse si muovono, non lo fanno per paura di un passato che ritorna, ma per un futuro che si impone come inevitabile.
L’evoluzione è, storicamente, un’idea radicale che travolge lo status quo.
Come siamo arrivati sulla Luna: dall’utopia all’iperstizione
Come spiegano Nick Srnicek e Alex Williams in Inventare il futuro—libro che in questa newsletter diventa consiglio letterario—a cavallo tra Ottocento e Novecento fiorì in Occidente una florida letteratura che immaginava un progresso scientifico capace di portarci sulla Luna. Un'idea che oggi ci sembra quasi banale ma che all’epoca era qualcosa di straordinario, un concetto al limite dell’assurdo. Non eravamo ancora in grado di volare, l’orizzonte esistenziale di un cittadino medio si spostava di poche decine di chilometri dal luogo in cui era nato e, per le strade, giravano più cavalli che automobili. Eppure, il desiderio di sollevarsi da terra, di spezzare le catene della gravità, di osservare il mondo dall’esterno era diventato - per mezzo di un genere letterario inizialmente di nicchia - un sogno collettivo. Un desiderio idealmente irrealizzabile, ma allo stesso tempo incontenibile. Nei decenni successivi generazioni di ingegneri, meccanici e politici hanno lavorato per trasformare quel sogno in un progetto concreto. Sono stati investiti saperi e risorse incalcolabili per realizzare ciò che all’inizio non era altro che un pensiero radicale, una fantasia da visionari. E nel 1969 quel pensiero è diventato realtà: l’uomo ha camminato sulla Luna.
Questa idea irrealistica si è rivelata, alla prova dei fatti, un’iperstizione.
Andare su Marte, abolire la grande proprietà privata, sconfiggere Trump
Per iperstizione si intende la capacità di un sogno di modificare il comportamento delle persone fino a trasformarsi in realtà. È l’effetto di una credenza collettiva talmente potente da diventare un motore di trasformazione storica. È stata per esempio la fede in un futuro di emancipazione socialista a permettere la liberazione dai fascismi e dal colonialismo nel Novecento. Il solo credere che un mondo migliore fosse possibile ha dato alle persone la forza di immaginarlo, di agire concretamente per costruirlo, di sfidare l’impossibile fino a renderlo tangibile. Le grandi conquiste sociali non nascono mai dalla prudenza, dal riformismo timido, dalla razionalità accomodante, ma dall’ostinazione nel credere che ciò che oggi è impensabile possa diventare inevitabile.
La grande differenza con il nostro tempo è che il progressismo liberal si è lasciato colonizzare da quello che Mark Fisher definiva realismo capitalista: l’incapacità di immaginare qualsiasi alternativa al sistema esistente, la vergogna nel proporla. Oggi, per essere considerata legittima, una proposta politica di sinistra deve essere realistica, aderente al fattibile, compatibile con i vincoli dello status quo. L’errore sta proprio qui: opporre alla strategia di Trump – che rilancia continuamente l’asticella del possibile, che normalizza l’inimmaginabile – una timida operazione di fact-checking, un debunking sterile, uno scanner morale con il solo obiettivo di ridicolizzare l’avversario.
Di fronte agli sconvolgimenti del nostro tempo l’unica posizione veramente ridicola è quella di chi pensa di risolvere i problemi dello status quo con lo status quo. L’errore di chi si oppone alla nuova reazione è credere che basti limitarsi a smontare le loro narrazioni, come se la battaglia politica fosse un tribunale dove vince chi porta più prove. Ma la politica non è solo un esercizio di razionalità: è desiderio, è immaginario, è tensione verso qualcosa che ancora non esiste. Il mondo non si cambia con i dati e con discorsi posati e razionali, si cambia con le idee radicali, con le visioni che sembrano folli, utopiche fino al giorno in cui diventano la nuova normalità.
Diversamente cederemo terreno, ci limiteremo a dover discutere come rendere le deportazioni e le prove di forza muscolari di Trump più accettabili
È proprio l’evasione dal recinto del pensabile che ha permesso all’essere umano di liberarsi dagli oppressori, di spezzare catene millenarie, di sollevare i piedi dal suolo e puntare verso la Luna. E forse, se avremo il coraggio di immaginare qualcosa di altrettanto dirompente, potremo scoprire che siamo in grado di delineare i contorni di un progetto politico degno di questo nome.
Si tratta, detta male, di spararla grossa. O di sognare in grande. Diversamente, si condanna l’opposizione alle barbarie reazionarie ad una condanna definitiva alla stagnazione politica. E nello stagno, come diceva Hegel, tutto muore.
Se lo vogliamo insieme possiamo andare su Marte, abolire la grande proprietà privata. E possiamo persino sconfiggere Donald Trump.
Basta uscire dal pantano dei realisti, senza paura.
Make socialism great again.
Alcune novità
A breve annuncerò un progetto editoriale al quale sto lavorando da qualche anno. C’entrano il socialismo, il reddito universale, le questioni di classe e gli inganni narrativi della disuguaglianza. Non posso dire altro, per ora.
Grazie ai 2270 sostenitori che credono in questo progetto e lo rendono possibile. Ho provato a ringraziarvi uno per uno ma sono ancora molto indietro.
Scrivo poco, è vero. Ma lo faccio con cura, rispetto, e con il desiderio sincero di aprire spazi di riflessione e dialogo. Non ho mai pensato di dover dire qualcosa su tutto. Quando scrivo, però, voglio che chi legge trovi valore. Anche nelle critiche, se costruttive.
Ogni caffè virtuale non è solo un gesto simbolico. È un segnale. Vuol dire che questo progetto ha un significato per qualcuno.
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Chissà, magari un giorno quel caffè riusciremo a berlo davvero insieme. ☕Come sempre critiche ben accette, se rispettose. Come sempre non perderò molto tempo per chi offende. Non mi va proprio di giocare in un terreno che non è il mio, per formazione e abitudine.
Un abbraccio
Alessandro
Uscire dallo stagno della consuetudine è anche ciò che serve per tornare a costruire una Coscienza di classe. Ne parla sempre Fisher in Desiderio Post-capitalista quando dice che anche solo pensare al problema della mancanza di alternative, è un passo necessario per generare un cambiamento. Forse la prima cosa da vincere è la rassegnazione, ma rimane sullo sfondo il problema della difficoltà di proporre un'alternativa.
Dobbiamo lavorarci tutti, anche se non è facile.